Di elena giordano
Ex ministro della difesa del governo Amato, giurista e ordinario di diritto pubblico, personaggio politico di primo piano del Psi, Salvo Andò ha assunto incarichi e responsabilità di grande rilievo nella storia socialista negli anni che vanno dal 1979 al 1994. Oltre che un brillante uomo politico, è ancora oggi un acuto e lungimirante osservatore della realtà. Ha fatto parte, inoltre, di tutte le commissioni parlamentari più importanti: da quella d’inchiesta sulla loggia massonica P2, alla Commissione di controllo per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, all’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili.
-Professore, cosa ne pensa della nuova inchiesta dell’Ungheria, loggia massonica di cui parla l’avvocato siracusano Piero Amara e che ha fatto esplodere il caso Csm?
Non credo che l’inchiesta sulla cosiddetta loggia Ungheria possa portare a grandi risultati. L’imputato (Amara, ndr), che ha rivelato ai giudici l’esistenza della loggia, non l’ha fatto certo per amore di verità. Si tratta di una strategia processuale tendente a delegittimare qualcuno e, soprattutto, a creare una grande confusione che potrebbe servire, ma già sta avvenendo, a scatenare una guerra per bande all’interno degli uffici giudiziari.
– Lei è stato parte per molto tempo della Commissione d’inchiesta sulla Loggia P2, crede che oggi, come allora, ci sia allo stesso modo in Italia un “sistema” di potere segreto che condiziona le grandi scelte politiche?
Non c’è dubbio che, anche dopo la conclusione parlamentare sull’inchiesta della P2, si sono avuti reiterati tentativi di ricostruire organizzazioni più o meno segrete allo scopo di condizionare i processi di decisione politica o di ricattare i potenti di turno. Basti pensare al caso Bisignani (Luigi,ndr) e ad altre inchieste in corso. Alcuni sodali di Gelli si sono riciclati, si è parlato di P2, P3, P4. Certo, bisogna intendersi sulla natura di queste organizzazioni, sovente si tratta di gruppi di pressione che tendono ad utilizzare le fonti più diverse per acquisire notizie e commerciarle utilmente di volta in volta, tenuto conto anche della forte e permanente conflittualità politica. Ma c’è anche dell’altro, come rivelato dalla scoperta di reti di traffici spesso illeciti che coinvolgono anche settori importanti del sistema politico, insomma di iniziative anti-italiane.
-Traffico di influenze illecite, insomma. Nel nostro Paese si muove tutto in base all’appartenenza a certi gruppi.
Badi bene una cosa è creare organizzazioni a sostegno dei comitati d’affari, più o meno segrete, un altro conto è organizzazioni eversive come la P2. Spesso si tratta di obbiettivi contigui. Del resto, se si è fatta una legge sul traffico di influenze illecite, era chiaro a tutti che il problema di come difendere l’interesse pubblico minacciato da settori dell’establishment politico e finanziario che fanno massa critica per imporre la loro volontà esiste. Basti pensare ai molti intermediari che si organizzano per fornire servizi alla pubblica amministrazione, spesso utilizzando strumenti tutt’altro che trasparenti. Ovviamente cosa diversa un’organizzazione che si occupa – invece – di aggiustare le sentenze, oppure di interferire sulle nomine dei vertici dei maggiori uffici giudiziari, insomma di stravolgere lo stato di diritto. Ma comunque, ripeto, la mia idea è che da questa inchiesta sulla loggia Ungheria non verrà fuori nulla.
-Che ne pensa, se fosse provato, della presenza del magistrato catanese Ardita, in questa loggia?
Mi auguro che il coinvolgimento dei magistrati sia una balla messa in giro allo scopo di creare confusione e che gli organi di informazione agiscano con senso di responsabilità nel dare in pasto al pubblico certe notizie con senso di responsabilità che spesso in passato non c’è stato in alcuni uffici giudiziari. Certe lezioni dovrebbero servire per tutti. Al di là di come andrà a finire l’inchiesta sulla presunta loggia segreta Ungheria, non pare dubbio che questa vicenda sia destinata a rendere ancora più pesante il all’interno della magistratura italiana. Si tratta di un altro duro colpo assestato alla credibilità della giustizia, già così duramente compromessa dalle disinvolte rivelazioni fatte da Luca Palamara, che ha spiegato come funziona il sistema della magistratura associata che nessuna riforma riuscirà, almeno nell’immediato, a mettere in discussione.
-Dunque, per lei il vero problema della magistratura è il suo sindacato?
Insomma -è questa la tesi dell’ex leader dell’ANM- o si distrugge il sistema, o esso sarà sempre in grado di assorbire crisi e contraccolpi che possano destabilizzarlo, tanto forte è la capacità negoziale che esprime, soprattutto se raffrontata alla debolezza della politica. Stavolta teatro dello scontro tra correnti, gruppi e personalità eminenti del giudiziario è la Procura di Milano. E tuttavia, come sempre avviene in questi casi, è inevitabile un effetto domino dell’inchiesta, con il coinvolgimento di più procure, della Cassazione e, ovviamente, del Csm – che pare essere diventato la sede naturale dei regolamenti dei conti e delle mediazioni che intervengono tra le correnti- nonché degli organi di informazione che fanno da megafono a questo o quel partito dei giudici.
-E di Piercamillo Davigo? Ritiene maldestro il suo tentativo di minimizzare la vicenda?
Davigo è stato protagonista “volontario” di tanta bagarre. Davigo, esponente di spicco di ANM e leader indiscusso della sua ala iper-giustizialista, oggi in pensione, fa notizia qualunque sia la posizione che assume nel dibattito sulla giustizia. Inspiegabilmente ha avuto a disposizione le carte dell’inchiesta -coperte da segreto istruttorio – ed ha cominciato a muoversi a destra e a manca per salvare, a suo dire, la Repubblica. Questa inchiesta rivela, attraverso la durezza dello scontro che contrappone anche magistrati che erano legati da vincoli di corrente, che le tensioni interne al mondo giudiziario hanno ormai raggiunto un’intensità tale da minacciare una ordinata vita democratica. Ciò ha contribuito a fare del Csm sempre più un porto delle nebbie. Il Consiglio è di fatto divenuto il braccio armato dall’ANM, ma anche una terza Camera che gestisce in via esclusiva le politiche della giustizia.
– Che si può fare?
Secondo me c’è un solo modo di mettere ordine a questo stato di cose: tornare alla Costituzione, cioè abrogare la costituzione materiale del giudiziario venutasi a formare su impulso dell’ANM. In questo contesto, l’autogoverno della magistratura ha dato luogo ad una vera e propria attività di indirizzo politico in materia di giustizia, condivisa da Anm e Csm. Ciò ha creato un coagulo di interessi corporativi che hanno nociuto all’indipendenza.
– Prima di Amara, un’altra vicenda ha scosso i palazzi siciliani e di tutto il Paese: quella di Antonello Montante e della “sua” Confindustria”. E’ la stessa storia che si ripete, secondo lei?
Si tratta di vicende diverse, stando a quanto è finora emerso. Nel primo caso si è trattato di un fenomeno di malagiustizia, di scambio di favori tra magistrati ed avvocati, insomma di un traffico illecito di influenze favorito da consolidate relazioni che gli avvocati indagati intrattenevano con personaggi collocati ai piani alti del sistema giudiziario e anche di un collaudato mercato delle sentenze. Nel secondo, invece, uno dei più significativi avamposti dell’antimafia costituito dal mondo delle imprese pulite, si è rivelato pericolosamente contiguo alla mafia, disposto a fare affari usando gli stessi metodi.
-L’antimafia di quella stagione – recente, tra l’altro – era diventata il simbolo del cambiamento, sembrava che dalla Sicilia fosse partito un movimento che stava cambiando il Paese.
Si è utilizzata la credibilità acquisita attraverso le battaglie antimafia come grimaldello per estorcere decisioni politiche gradite, per ottenere tutto – o quasi – nel mondo degli affari, violando le regole della concorrenza. Costoro, insomma, hanno utilizzato l’impunità conquistata attraverso le invettive contro la mafia per fare affari tutt’altro che puliti e, paradossalmente, accettando anche complicità imbarazzanti che la politica assecondava, dimenticando che le cose non sono buone o cattive a secondo di chi le fa ma, come insegnava Sciascia, sono buone o cattive in sé.
-Insomma, ci siamo trovati davanti a degli impostori?
Si è abusato della credibilità popolare, del sostegno dell’informazione per realizzare una grande impostura, che ha fatto di piccoli imprenditori importanti uomini d’affari di fronte ai quali si aprivano tutte le porte.
E’ chiaro che il mondo dell’impresa pulita davvero, che inneggiava a Libero Grassi, si è sentito tradito, impotente di fronte a questa antimafia faccendiera, sia nel mondo del business che in politica. Si è distrutto un tratto di storia siciliana fatto di grandi speranze. La Confinfustria siciliana ha subito un colpo durissimo, alcuni suoi uomini simbolo sono spariti dalla circolazione, si è data ragione a chi parlava di una Sicilia irredimibile, ove cambiano le facce ma non i metodi di governo, l’intreccio tra affari legali e illegali.
-Cambiamo argomento, Lei ha avuto modo di seguire le ultime dichiarazioni del pentito di mafia Maurizio Avola? Con il boss catanese oggi protagonista del nuovo libro di Michele Santoro, che si è reso negli anni fonte inesauribile di rivelazioni. In alcuni processi, infatti, ha tirato in ballo anche i socialisti.
C’è qualcosa di incomprensibile in questa operazione editoriale proposta da Santoro attraverso il libro su Maurizio Avola che non può essere trattata, come qualcuno ha detto, soltanto come un tentativo di Santoro di rientrare nel grande giro della comunicazione. Del resto, Santoro stesso spiega che non sa bene perché ha deciso di incontrare uno che ha ucciso più di 80 persone, che da pentito ha continuato a fare il rapinatore, che ha compiuto efferati delitti e che è stato un killer spietato che ha operato sempre su commissione e, in qualche caso, anche in proprio. Ha fatto una grande impressione, tanti anni fa, in occasione di un processo a Bologna, svoltosi intorno la metà degli anni 80 una sua dichiarazione in cui ha spiegato che aveva ucciso una vicina di casa perché gli era antipatica, perché lui più o meno ragionava così; se qualcuno gli dava fastidio, lo liquidava. Ripeto tutto ciò c’entra poco con la storia romanzata che ci consegna Santoro.
-Lei dice, in sostanza: Santoro si è dequalificato dando voce a uno che non è neanche stato un pezzo grosso della mafia e un uomo d’onore.
No, fa il suo mestiere dopo anni di silenzio. Semplicemente, osservo che, in questo caso, non c’è un criminale che sente il peso terribile delle proprie colpe, ma un mentitore sbugiardato dai tribunali di mezza Italia che ancora una volta vuole farla franca per avere dei vantaggi, pensando che attraverso le sue fandonie possa trovare udienza presso l’opinione pubblica e, magari, mettere in moto un processo di depistaggio che può servire ad alcuni oltre che a sé stesso. Non è una grande notizia quella secondo cui Cosa nostra, aveva rapporti anche con apparati istituzionali. Ma su questo punto Avola non dice molto, spiega che ha fatto tutto da solo nella fase finale dell’attentato di via D’Amelio, perché non c’è alcuna autorità al di sopra della mafia che potesse condizionarne le scelte. Insomma, ci tiene a dire che con la sua confessione finisce tutto, che non c’è più nulla su cui indagare. Non dà prove, vuole che il caso si chiuda cosi come si tentava di fare con i tanti depistaggi, poi smontati.
– Si riferisce alla precisazione di Avola in cui si esclude la partecipazione dei servizi segreti all’attentato al giudice Borsellino?
Dalla narrazione di Avola, che è un mentitore seriale, viene fuori insomma che al di fuori della cupola mafiosa non c’è altro. E’inutile fare indagini. Insomma, è lo scopo pratico del libro che risulta sfuggente, a meno che non si pensi che siano stati gli avvocati ad avere indotto Avola a dire le cose che ha detto per potersi reinserire in un programma di protezione.
– Insomma, o Michele Santoro stavolta è scivolato sul bagnato oppure, secondo lei, sta prestando il fianco a qualcuno.
Il libro è debole, perché non c’è un tentativo di controinchiesta, parla soltanto Avola, non ci sono importanti riscontri e se ci sono quei pochi, che dovrebbero essere a favore di questo super killer, sono debolissimi. Stando al giudizio di alcuni avvocati che conoscevano il personaggio pare che Avola non se ne intendesse di esplosivi e invece viene trattato come un grande tecnico della materia, addirittura ci fornisce una sua lettura del delitto Mattei, con i boss che manomettono un aereo per mettere una bomba. Non è un gioco da ragazzi fare ciò su un aereo. Non c’è inquirente che non abbia definito inattendibile Avola, insomma, sembra che ci si trovi di fronte ad un nuovo tentativo di depistaggio da parte del personaggio. Santoro ha spiegato che si ha paura del suo libro, ma il libro come l’inchiesta, non dovrebbe fare paura a nessuno.
-A proposito dell’uccisione di Enrico Mattei, come mai non si è ancora approfondita tutta la vicenda?
Su questo argomento non mi pare che ci sia interesse ad approfondire. Facendo delle precise domande a chi dice di sapere molto sull’argomento, come mai non si chiede chi permise ai boss di entrare in pista? Quali erano le dimensioni e il funzionamento della bomba ? Dove è stata nascosta? Come sono entrati nell’aereo, solitamente con portelli chiusi serrati quando è in sosta?
-Ma dunque chi vuole colpire davvero il pentito e chi vuole proteggere?
Io direi che non è dato capire chi sta manovrando Avola, a quali fini e se questo tentato depistaggio sia in grado di reggere a lungo. Ripeto, sembra che si sia di fronte ad un nuovo tentativo di ostacolare l’inchiesta. A chi conviene tanto zelo investigativo a senso unico e che non produce prove inoppugnabili. Pare proprio assolutamente inattendibile il tentativo di fare emergere l’umanità di un killer spietato che entra ed esce dal pentitismo trovando via via mallevadori diversi; ieri i giudici, oggi un giornalista. Le rivelazioni di Avola tutto sono tranne che sconvolgenti e in molti processi, che si sono svolti anche a Catania, sono state smentite in maniera netta.
– A cosa si riferisce in particolare?
Per esempio, ai rapporti tra i partiti e le organizzazioni mafiose, ha dato delle notizie, con riferimento alle campagne elettorali, che sono state poi smentite. In sostanza, cercava di dare di se l’impressione di essere un personaggio di rilievo dell’organizzazione, ma quando si arriva a chiedergli dei particolari verificabili, compie errori clamorosi; non riferiva notizie de relato, ma notizie inventate di sana pianta. Era noto a tutti che i socialisti e i radicali avevano fatto il referendum sulla giustizia, ma Avola quando parlava di rapporti elettorali utilizzava questo elemento per giustificare le sue clamorose rivelazioni. Mentre poi con dati elettorali alla mano, è emerso che i boss i voti li davano non tenuto conto delle crociate garantiste ma attraverso operazioni di compravendita.
-Un pentito anche fanfarone, dunque?
In sostanza, nella storia del pentitismo mafioso Avola è stato considerato un magliaro che metteva in circolo notizie tanto clamorose quanto improbabili, considerato che non aveva accesso ai piani alti dell’organizzazione mafiosa. E, però, per godere dei vantaggi del suo status di pentito doveva comunque dare notizie eclatanti.
-Terrorismo: qualche giorno fa, a distanza di 40 anni, sono stati eseguiti gli arresti in Francia di dieci tra i maggiori terroristi rossi fuggiti dall’Italia negli anni di piombo e protetti fino ad oggi dalla dottrina Mitterrand. Crede che questo cambio di rotta nei confronti dell’Italia sia dovuto all’influenza del nuovo premier Mario Draghi o c’è dell’altro?
Non so se Draghi abbia compiuto passi informali. Tutto però mi pare che si sia svolto alla luce del sole attraverso l’iniziativa assunta dalla ministra Cartabia. In verità l’Italia aveva fatto pressioni sui francesi anche in passato, ai tempi di Chirac. Qualcuno si è chiesto perché la Francia adesso sembra disponibile a cedere, cioè a concedere l’estradizione. Non credo che, Macron, sia mosso da interessi elettorali anche perché quello di estradizione è un procedimento lungo che non si risolve dall’oggi al domani. Su questo tema la battaglia ideologica sembra ormai davvero datata, non c’è stata mai una vera e propria dottrina Mitterand.
-In cosa consiste nello specifico, questa sorta di protezione nota a tutti con il nome del defunto presidente francese?
E’ noto che, Mitterand, non fosse propenso a promuovere regimi emergenziali, non credeva nell’attendibilità dei pentiti. Da questo punto di vista non c’è mai stata un’intesa tra socialisti francesi e italiani. Certo, Craxi era molto amico di Gilles Martinet, l’ambasciatore francese in Italia e quindi ne avrà pure parlato di questi problemi, ma le opinioni di Craxi sulla violenza politica sono ben note, non la tollerava in nessuna forma. A suo tempo manifestò molta preoccupazione con riferimento anche a possibili movimenti studenteschi che si andavano radicalizzando. Spiegava che, dalla contestazione violenta, potevano venire rischi molto seri per il paese.
-Quindi voi socialisti e soprattutto il leader Craxi non eravate perdonisti?
Ai tempi della contestazione sui muri dell’università Statale di Milano si inveiva contro Craxi sostituendo nelle scritte la svastica alla x. Non ha mai carezzato il pelo dei bravi ragazzi che sognavano la rivoluzione aggredendo i poliziotti, ma rifare adesso la storia degli anni di piombo per trovare argomenti che in qualche modo possano rendere più difficile l’estradizione è sbagliato. Ci sono verità che certamente bisogna ricercare, ma senza confondere il ‘68 con il terrorismo. Quest’ultimo ha rappresentato una forma di degenerazione della lotta politica che non ha mai trovato consenso di massa del Paese. In sostanza i terroristi volevano distruggere la democrazia e instaurare la dittatura, cancellare le conquiste che il Paese aveva faticosamente realizzato.
– Quale potrebbe essere dunque il senso di questi arresti dopo 40 anni?
Fare scontare le pene a chi è fuggito all’estero. E’ assolutamente corretto che l’Italia si sia data e si dia da fare per vedere applicate le sentenze di condanna dei terroristi che, per evitare il carcere, hanno trovato rifugio in altri paesi C’è da dire che non sempre le richieste di estradizioni sono state coltivate con la necessaria convinzione. Su questo terreno non c’è garantismo che tenga, si tratta di responsabili di orrendi delitti ed è giusto che saldino i propri conti con la giustizia.
-Potrà servire questo a farci scoprire verità mai sapute?
Forse si. Basti pensare al rapimento e all’uccisione di Moro. Ma la lettura della storia degli anni di piombo registra una larghissima condivisione nel Paese. Ripeto bisogna non confondere le lotte con il terrorismo. Ci sono differenze abissali tra i movimenti che volevano un paese meno bigotto, in cui si stabilisse un nuovo rapporto tra autorità e libertà e quelli che all’interno di essi sprangavano gli avversari, rompevano le teste, creavano incidenti con le forze dell’ordine che hanno prodotto delle vittime.
I terroristi volevano creare un clima di terrore illudendosi che, in questo modo, potevano favorire una improbabile sollevazione popolare. Hanno distrutto famiglie e ucciso innocenti, hanno colpito tanti lavoratori il cui torto era quello di difendere la democrazia. Alcuni erano accecati dall’ideologia, altri erano analfabeti che praticavano la violenza per la violenza. I poliziotti e i carabinieri contro cui sparavano venivano da famiglie molto modeste, quindi da questo punto di vista il giudizio storico è definitivo. E’ giusto che, finalmente, paghino quelli che fino ad ora hanno evitato il carcere. Accettando il carcere avrebbero avuto dei vantaggi. Certo, una pena inflitta quarant’anni dopo rende problematico il reinserimento sociale, non consente di redimersi, ma da questo punto di vista chi si è sottratto al carcere ha compiuto un ulteriore errore. Gli argomenti dei gauchisti francesi, secondo cui il carcere dopo tanti anni di esilio è un errore, non convince. A costoro bisognerebbe chiedere quale atteggiamento terrebbero se i terroristi del Bataclan venissero in Italia per non espiare le pene e magari si rifiutasse loro l’estradizione.
-Siamo alla scadenza del mandato presidenziale. L’anno prossimo la Sicilia andrà al voto e già appare scontata la ricandidatura di Nello Musumeci. Chi potrebbe essere, secondo lei, un buon candidato per il centrosinistra, tenuto conto che è già sceso in campo Claudio Fava?
Un buon candidato è quello che riuscirà a rimediare alla crisi di reputazione che ha portato ad una totale svalutazione dell’istituto autonomistico. L’autonomia è un valore importante per la crescita, ma ha bisogno di classi dirigenti in grado di esprimere una grande capacità negoziate a livello nazionale, di dimostrare che molte scelte, se affidate ai territori, possono dare risultati migliori di quelli prodotti da un centralismo spesso obeso e inefficiente.
-Quindi lei è per l’abolizione dell’autonomia siciliana?
Non esageriamo. La nostra autonomia è nata prima della Costituzione. Si tratta però di un primato che non abbiamo saputo valorizzare. Abbiamo spesso copiato il peggio dello stato centralista. Sul piano delle storiche inefficienze del pubblico abbiamo avuto in questo senso un’autonomia ‘replicante’. L’autonomia invece deve esprimere grandi progettualità. Siamo l’unica regione a statuto speciale nel sud e dovevamo costituire un faro per le regioni meridionali. Così non è stato. L’ARS si è caratterizzata come luogo dello scambio politico minuto, dello spreco di risorse, di riforme mal fatte. Lo Stato andava sfidato sul terreno dell’innovazione e non chiedendo provvidenze con il cappello in mano.
-Se la sente di azzardare un bilancio sul mandato in corso di Musumeci?
Musumeci è una persona perbene, che è stato sempre in politica dalla stessa parte. Il governo con questa maggioranza può solo sopravvivere, non governare. L’immobilismo però dipende in larga misura dall’Assemblea, per le ragioni già dette, soprattutto per le pratiche di governo spartitorio che hanno caratterizzato tutte le stagioni politiche. Non c’è una maggioranza ma un sistema di feudi autoreferenziali che negoziano su tutto e, se non riescono a ottenere ciò che chiedono, si contrappongono dei veti a vicenda.
– E delle forze di opposizione?Ciò vale anche per l’opposizione. Ciascun gruppo vuole riconosciuto una quota di potere a cui crede di avere diritto altrimenti transita da un centro all’altro. La transumanza qui è sistemica, non fa notizia a differenza di quanto avviene a Roma.