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La cosa più importante è continuare a raccontare quello che vedo (cit.Anna Politkovskaja)

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Intervista a Salvo Andò, ex ministro della Difesa – “L’Italia dei misteri” S_Mensile

Di elena giordano

Ex ministro della difesa del governo Amato, giurista e ordinario di diritto pubblico, personaggio politico di primo piano del Psi, Salvo Andò ha assunto incarichi e responsabilità di grande rilievo nella storia socialista negli anni che vanno dal 1979 al 1994. Oltre che un brillante uomo politico, è ancora oggi un acuto e lungimirante osservatore della realtà. Ha fatto parte, inoltre, di tutte le commissioni parlamentari più importanti: da quella d’inchiesta sulla loggia massonica P2, alla Commissione di controllo per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato, all’inchiesta sul fenomeno della mafia e sulle altre associazioni criminali, sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili.
-Professore, cosa ne pensa della nuova inchiesta dell’Ungheria, loggia massonica di cui parla l’avvocato siracusano Piero Amara e che ha fatto esplodere il caso Csm?
Non credo che l’inchiesta sulla cosiddetta loggia Ungheria possa portare a grandi risultati. L’imputato (Amara, ndr), che ha rivelato ai giudici l’esistenza della loggia, non l’ha fatto certo per amore di verità. Si tratta di una strategia processuale tendente a delegittimare qualcuno e, soprattutto, a creare una grande confusione che potrebbe servire, ma già sta avvenendo, a scatenare una guerra per bande all’interno degli uffici giudiziari.
– Lei è stato parte per molto tempo della Commissione d’inchiesta sulla Loggia P2, crede che oggi, come allora, ci sia allo stesso modo in Italia un “sistema” di potere segreto che condiziona le grandi scelte politiche?
Non c’è dubbio che, anche dopo la conclusione parlamentare sull’inchiesta della P2, si sono avuti reiterati tentativi di ricostruire organizzazioni più o meno segrete allo scopo di condizionare i processi di decisione politica o di ricattare i potenti di turno. Basti pensare al caso Bisignani (Luigi,ndr) e ad altre inchieste in corso. Alcuni sodali di Gelli si sono riciclati, si è parlato di P2, P3, P4. Certo, bisogna intendersi sulla natura di queste organizzazioni, sovente si tratta di gruppi di pressione che tendono ad utilizzare le fonti più diverse per acquisire notizie e commerciarle utilmente di volta in volta, tenuto conto anche della forte e permanente conflittualità politica. Ma c’è anche dell’altro, come rivelato dalla scoperta di reti di traffici spesso illeciti che coinvolgono anche settori importanti del sistema politico, insomma di iniziative anti-italiane.
-Traffico di influenze illecite, insomma. Nel nostro Paese si muove tutto in base all’appartenenza a certi gruppi.
Badi bene una cosa è creare organizzazioni a sostegno dei comitati d’affari, più o meno segrete, un altro conto è organizzazioni eversive come la P2. Spesso si tratta di obbiettivi contigui. Del resto, se si è fatta una legge sul traffico di influenze illecite, era chiaro a tutti che il problema di come difendere l’interesse pubblico minacciato da settori dell’establishment politico e finanziario che fanno massa critica per imporre la loro volontà esiste. Basti pensare ai molti intermediari che si organizzano per fornire servizi alla pubblica amministrazione, spesso utilizzando strumenti tutt’altro che trasparenti. Ovviamente cosa diversa un’organizzazione che si occupa – invece – di aggiustare le sentenze, oppure di interferire sulle nomine dei vertici dei maggiori uffici giudiziari, insomma di stravolgere lo stato di diritto. Ma comunque, ripeto, la mia idea è che da questa inchiesta sulla loggia Ungheria non verrà fuori nulla.
-Che ne pensa, se fosse provato, della presenza del magistrato catanese Ardita, in questa loggia?
Mi auguro che il coinvolgimento dei magistrati sia una balla messa in giro allo scopo di creare confusione e che gli organi di informazione agiscano con senso di responsabilità nel dare in pasto al pubblico certe notizie con senso di responsabilità che spesso in passato non c’è stato in alcuni uffici giudiziari. Certe lezioni dovrebbero servire per tutti. Al di là di come andrà a finire l’inchiesta sulla presunta loggia segreta Ungheria, non pare dubbio che questa vicenda sia destinata a rendere ancora più pesante il all’interno della magistratura italiana. Si tratta di un altro duro colpo assestato alla credibilità della giustizia, già così duramente compromessa dalle disinvolte rivelazioni fatte da Luca Palamara, che ha spiegato come funziona il sistema della magistratura associata che nessuna riforma riuscirà, almeno nell’immediato, a mettere in discussione.
-Dunque, per lei il vero problema della magistratura è il suo sindacato?
Insomma -è questa la tesi dell’ex leader dell’ANM- o si distrugge il sistema, o esso sarà sempre in grado di assorbire crisi e contraccolpi che possano destabilizzarlo, tanto forte è la capacità negoziale che esprime, soprattutto se raffrontata alla debolezza della politica. Stavolta teatro dello scontro tra correnti, gruppi e personalità eminenti del giudiziario è la Procura di Milano. E tuttavia, come sempre avviene in questi casi, è inevitabile un effetto domino dell’inchiesta, con il coinvolgimento di più procure, della Cassazione e, ovviamente, del Csm – che pare essere diventato la sede naturale dei regolamenti dei conti e delle mediazioni che intervengono tra le correnti- nonché degli organi di informazione che fanno da megafono a questo o quel partito dei giudici.
-E di Piercamillo Davigo? Ritiene maldestro il suo tentativo di minimizzare la vicenda?
Davigo è stato protagonista “volontario” di tanta bagarre. Davigo, esponente di spicco di ANM e leader indiscusso della sua ala iper-giustizialista, oggi in pensione, fa notizia qualunque sia la posizione che assume nel dibattito sulla giustizia. Inspiegabilmente ha avuto a disposizione le carte dell’inchiesta -coperte da segreto istruttorio – ed ha cominciato a muoversi a destra e a manca per salvare, a suo dire, la Repubblica. Questa inchiesta rivela, attraverso la durezza dello scontro che contrappone anche magistrati che erano legati da vincoli di corrente, che le tensioni interne al mondo giudiziario hanno ormai raggiunto un’intensità tale da minacciare una ordinata vita democratica. Ciò ha contribuito a fare del Csm sempre più un porto delle nebbie. Il Consiglio è di fatto divenuto il braccio armato dall’ANM, ma anche una terza Camera che gestisce in via esclusiva le politiche della giustizia.
– Che si può fare?
Secondo me c’è un solo modo di mettere ordine a questo stato di cose: tornare alla Costituzione, cioè abrogare la costituzione materiale del giudiziario venutasi a formare su impulso dell’ANM. In questo contesto, l’autogoverno della magistratura ha dato luogo ad una vera e propria attività di indirizzo politico in materia di giustizia, condivisa da Anm e Csm. Ciò ha creato un coagulo di interessi corporativi che hanno nociuto all’indipendenza.
– Prima di Amara, un’altra vicenda ha scosso i palazzi siciliani e di tutto il Paese: quella di Antonello Montante e della “sua” Confindustria”. E’ la stessa storia che si ripete, secondo lei?
Si tratta di vicende diverse, stando a quanto è finora emerso. Nel primo caso si è trattato di un fenomeno di malagiustizia, di scambio di favori tra magistrati ed avvocati, insomma di un traffico illecito di influenze favorito da consolidate relazioni che gli avvocati indagati intrattenevano con personaggi collocati ai piani alti del sistema giudiziario e anche di un collaudato mercato delle sentenze. Nel secondo, invece, uno dei più significativi avamposti dell’antimafia costituito dal mondo delle imprese pulite, si è rivelato pericolosamente contiguo alla mafia, disposto a fare affari usando gli stessi metodi.
-L’antimafia di quella stagione – recente, tra l’altro – era diventata il simbolo del cambiamento, sembrava che dalla Sicilia fosse partito un movimento che stava cambiando il Paese.
Si è utilizzata la credibilità acquisita attraverso le battaglie antimafia come grimaldello per estorcere decisioni politiche gradite, per ottenere tutto – o quasi – nel mondo degli affari, violando le regole della concorrenza. Costoro, insomma, hanno utilizzato l’impunità conquistata attraverso le invettive contro la mafia per fare affari tutt’altro che puliti e, paradossalmente, accettando anche complicità imbarazzanti che la politica assecondava, dimenticando che le cose non sono buone o cattive a secondo di chi le fa ma, come insegnava Sciascia, sono buone o cattive in sé.

-Insomma, ci siamo trovati davanti a degli impostori?
Si è abusato della credibilità popolare, del sostegno dell’informazione per realizzare una grande impostura, che ha fatto di piccoli imprenditori importanti uomini d’affari di fronte ai quali si aprivano tutte le porte.
E’ chiaro che il mondo dell’impresa pulita davvero, che inneggiava a Libero Grassi, si è sentito tradito, impotente di fronte a questa antimafia faccendiera, sia nel mondo del business che in politica. Si è distrutto un tratto di storia siciliana fatto di grandi speranze. La Confinfustria siciliana ha subito un colpo durissimo, alcuni suoi uomini simbolo sono spariti dalla circolazione, si è data ragione a chi parlava di una Sicilia irredimibile, ove cambiano le facce ma non i metodi di governo, l’intreccio tra affari legali e illegali.

-Cambiamo argomento, Lei ha avuto modo di seguire le ultime dichiarazioni del pentito di mafia Maurizio Avola? Con il boss catanese oggi protagonista del nuovo libro di Michele Santoro, che si è reso negli anni fonte inesauribile di rivelazioni. In alcuni processi, infatti, ha tirato in ballo anche i socialisti.
C’è qualcosa di incomprensibile in questa operazione editoriale proposta da Santoro attraverso il libro su Maurizio Avola che non può essere trattata, come qualcuno ha detto, soltanto come un tentativo di Santoro di rientrare nel grande giro della comunicazione. Del resto, Santoro stesso spiega che non sa bene perché ha deciso di incontrare uno che ha ucciso più di 80 persone, che da pentito ha continuato a fare il rapinatore, che ha compiuto efferati delitti e che è stato un killer spietato che ha operato sempre su commissione e, in qualche caso, anche in proprio. Ha fatto una grande impressione, tanti anni fa, in occasione di un processo a Bologna, svoltosi intorno la metà degli anni 80 una sua dichiarazione in cui ha spiegato che aveva ucciso una vicina di casa perché gli era antipatica, perché lui più o meno ragionava così; se qualcuno gli dava fastidio, lo liquidava. Ripeto tutto ciò c’entra poco con la storia romanzata che ci consegna Santoro.
-Lei dice, in sostanza: Santoro si è dequalificato dando voce a uno che non è neanche stato un pezzo grosso della mafia e un uomo d’onore.
No, fa il suo mestiere dopo anni di silenzio. Semplicemente, osservo che, in questo caso, non c’è un criminale che sente il peso terribile delle proprie colpe, ma un mentitore sbugiardato dai tribunali di mezza Italia che ancora una volta vuole farla franca per avere dei vantaggi, pensando che attraverso le sue fandonie possa trovare udienza presso l’opinione pubblica e, magari, mettere in moto un processo di depistaggio che può servire ad alcuni oltre che a sé stesso. Non è una grande notizia quella secondo cui Cosa nostra, aveva rapporti anche con apparati istituzionali. Ma su questo punto Avola non dice molto, spiega che ha fatto tutto da solo nella fase finale dell’attentato di via D’Amelio, perché non c’è alcuna autorità al di sopra della mafia che potesse condizionarne le scelte. Insomma, ci tiene a dire che con la sua confessione finisce tutto, che non c’è più nulla su cui indagare. Non dà prove, vuole che il caso si chiuda cosi come si tentava di fare con i tanti depistaggi, poi smontati.
– Si riferisce alla precisazione di Avola in cui si esclude la partecipazione dei servizi segreti all’attentato al giudice Borsellino?
Dalla narrazione di Avola, che è un mentitore seriale, viene fuori insomma che al di fuori della cupola mafiosa non c’è altro. E’inutile fare indagini. Insomma, è lo scopo pratico del libro che risulta sfuggente, a meno che non si pensi che siano stati gli avvocati ad avere indotto Avola a dire le cose che ha detto per potersi reinserire in un programma di protezione.
– Insomma, o Michele Santoro stavolta è scivolato sul bagnato oppure, secondo lei, sta prestando il fianco a qualcuno.
Il libro è debole, perché non c’è un tentativo di controinchiesta, parla soltanto Avola, non ci sono importanti riscontri e se ci sono quei pochi, che dovrebbero essere a favore di questo super killer, sono debolissimi. Stando al giudizio di alcuni avvocati che conoscevano il personaggio pare che Avola non se ne intendesse di esplosivi e invece viene trattato come un grande tecnico della materia, addirittura ci fornisce una sua lettura del delitto Mattei, con i boss che manomettono un aereo per mettere una bomba. Non è un gioco da ragazzi fare ciò su un aereo. Non c’è inquirente che non abbia definito inattendibile Avola, insomma, sembra che ci si trovi di fronte ad un nuovo tentativo di depistaggio da parte del personaggio. Santoro ha spiegato che si ha paura del suo libro, ma il libro come l’inchiesta, non dovrebbe fare paura a nessuno.
-A proposito dell’uccisione di Enrico Mattei, come mai non si è ancora approfondita tutta la vicenda?
Su questo argomento non mi pare che ci sia interesse ad approfondire. Facendo delle precise domande a chi dice di sapere molto sull’argomento, come mai non si chiede chi permise ai boss di entrare in pista? Quali erano le dimensioni e il funzionamento della bomba ? Dove è stata nascosta? Come sono entrati nell’aereo, solitamente con portelli chiusi serrati quando è in sosta?
-Ma dunque chi vuole colpire davvero il pentito e chi vuole proteggere?
Io direi che non è dato capire chi sta manovrando Avola, a quali fini e se questo tentato depistaggio sia in grado di reggere a lungo. Ripeto, sembra che si sia di fronte ad un nuovo tentativo di ostacolare l’inchiesta. A chi conviene tanto zelo investigativo a senso unico e che non produce prove inoppugnabili. Pare proprio assolutamente inattendibile il tentativo di fare emergere l’umanità di un killer spietato che entra ed esce dal pentitismo trovando via via mallevadori diversi; ieri i giudici, oggi un giornalista. Le rivelazioni di Avola tutto sono tranne che sconvolgenti e in molti processi, che si sono svolti anche a Catania, sono state smentite in maniera netta.
– A cosa si riferisce in particolare?
Per esempio, ai rapporti tra i partiti e le organizzazioni mafiose, ha dato delle notizie, con riferimento alle campagne elettorali, che sono state poi smentite. In sostanza, cercava di dare di se l’impressione di essere un personaggio di rilievo dell’organizzazione, ma quando si arriva a chiedergli dei particolari verificabili, compie errori clamorosi; non riferiva notizie de relato, ma notizie inventate di sana pianta. Era noto a tutti che i socialisti e i radicali avevano fatto il referendum sulla giustizia, ma Avola quando parlava di rapporti elettorali utilizzava questo elemento per giustificare le sue clamorose rivelazioni. Mentre poi con dati elettorali alla mano, è emerso che i boss i voti li davano non tenuto conto delle crociate garantiste ma attraverso operazioni di compravendita.
-Un pentito anche fanfarone, dunque?
In sostanza, nella storia del pentitismo mafioso Avola è stato considerato un magliaro che metteva in circolo notizie tanto clamorose quanto improbabili, considerato che non aveva accesso ai piani alti dell’organizzazione mafiosa. E, però, per godere dei vantaggi del suo status di pentito doveva comunque dare notizie eclatanti.
-Terrorismo: qualche giorno fa, a distanza di 40 anni, sono stati eseguiti gli arresti in Francia di dieci tra i maggiori terroristi rossi fuggiti dall’Italia negli anni di piombo e protetti fino ad oggi dalla dottrina Mitterrand. Crede che questo cambio di rotta nei confronti dell’Italia sia dovuto all’influenza del nuovo premier Mario Draghi o c’è dell’altro?
Non so se Draghi abbia compiuto passi informali. Tutto però mi pare che si sia svolto alla luce del sole attraverso l’iniziativa assunta dalla ministra Cartabia. In verità l’Italia aveva fatto pressioni sui francesi anche in passato, ai tempi di Chirac. Qualcuno si è chiesto perché la Francia adesso sembra disponibile a cedere, cioè a concedere l’estradizione. Non credo che, Macron, sia mosso da interessi elettorali anche perché quello di estradizione è un procedimento lungo che non si risolve dall’oggi al domani. Su questo tema la battaglia ideologica sembra ormai davvero datata, non c’è stata mai una vera e propria dottrina Mitterand.

-In cosa consiste nello specifico, questa sorta di protezione nota a tutti con il nome del defunto presidente francese?
E’ noto che, Mitterand, non fosse propenso a promuovere regimi emergenziali, non credeva nell’attendibilità dei pentiti. Da questo punto di vista non c’è mai stata un’intesa tra socialisti francesi e italiani. Certo, Craxi era molto amico di Gilles Martinet, l’ambasciatore francese in Italia e quindi ne avrà pure parlato di questi problemi, ma le opinioni di Craxi sulla violenza politica sono ben note, non la tollerava in nessuna forma. A suo tempo manifestò molta preoccupazione con riferimento anche a possibili movimenti studenteschi che si andavano radicalizzando. Spiegava che, dalla contestazione violenta, potevano venire rischi molto seri per il paese.

-Quindi voi socialisti e soprattutto il leader Craxi non eravate perdonisti?
Ai tempi della contestazione sui muri dell’università Statale di Milano si inveiva contro Craxi sostituendo nelle scritte la svastica alla x. Non ha mai carezzato il pelo dei bravi ragazzi che sognavano la rivoluzione aggredendo i poliziotti, ma rifare adesso la storia degli anni di piombo per trovare argomenti che in qualche modo possano rendere più difficile l’estradizione è sbagliato. Ci sono verità che certamente bisogna ricercare, ma senza confondere il ‘68 con il terrorismo. Quest’ultimo ha rappresentato una forma di degenerazione della lotta politica che non ha mai trovato consenso di massa del Paese. In sostanza i terroristi volevano distruggere la democrazia e instaurare la dittatura, cancellare le conquiste che il Paese aveva faticosamente realizzato.

– Quale potrebbe essere dunque il senso di questi arresti dopo 40 anni?

Fare scontare le pene a chi è fuggito all’estero. E’ assolutamente corretto che l’Italia si sia data e si dia da fare per vedere applicate le sentenze di condanna dei terroristi che, per evitare il carcere, hanno trovato rifugio in altri paesi C’è da dire che non sempre le richieste di estradizioni sono state coltivate con la necessaria convinzione. Su questo terreno non c’è garantismo che tenga, si tratta di responsabili di orrendi delitti ed è giusto che saldino i propri conti con la giustizia.

-Potrà servire questo a farci scoprire verità mai sapute?

Forse si. Basti pensare al rapimento e all’uccisione di Moro. Ma la lettura della storia degli anni di piombo registra una larghissima condivisione nel Paese. Ripeto bisogna non confondere le lotte con il terrorismo. Ci sono differenze abissali tra i movimenti che volevano un paese meno bigotto, in cui si stabilisse un nuovo rapporto tra autorità e libertà e quelli che all’interno di essi sprangavano gli avversari, rompevano le teste, creavano incidenti con le forze dell’ordine che hanno prodotto delle vittime.
I terroristi volevano creare un clima di terrore illudendosi che, in questo modo, potevano favorire una improbabile sollevazione popolare. Hanno distrutto famiglie e ucciso innocenti, hanno colpito tanti lavoratori il cui torto era quello di difendere la democrazia. Alcuni erano accecati dall’ideologia, altri erano analfabeti che praticavano la violenza per la violenza. I poliziotti e i carabinieri contro cui sparavano venivano da famiglie molto modeste, quindi da questo punto di vista il giudizio storico è definitivo. E’ giusto che, finalmente, paghino quelli che fino ad ora hanno evitato il carcere. Accettando il carcere avrebbero avuto dei vantaggi. Certo, una pena inflitta quarant’anni dopo rende problematico il reinserimento sociale, non consente di redimersi, ma da questo punto di vista chi si è sottratto al carcere ha compiuto un ulteriore errore. Gli argomenti dei gauchisti francesi, secondo cui il carcere dopo tanti anni di esilio è un errore, non convince. A costoro bisognerebbe chiedere quale atteggiamento terrebbero se i terroristi del Bataclan venissero in Italia per non espiare le pene e magari si rifiutasse loro l’estradizione.

-Siamo alla scadenza del mandato presidenziale. L’anno prossimo la Sicilia andrà al voto e già appare scontata la ricandidatura di Nello Musumeci. Chi potrebbe essere, secondo lei, un buon candidato per il centrosinistra, tenuto conto che è già sceso in campo Claudio Fava?
Un buon candidato è quello che riuscirà a rimediare alla crisi di reputazione che ha portato ad una totale svalutazione dell’istituto autonomistico. L’autonomia è un valore importante per la crescita, ma ha bisogno di classi dirigenti in grado di esprimere una grande capacità negoziate a livello nazionale, di dimostrare che molte scelte, se affidate ai territori, possono dare risultati migliori di quelli prodotti da un centralismo spesso obeso e inefficiente.

-Quindi lei è per l’abolizione dell’autonomia siciliana?
Non esageriamo. La nostra autonomia è nata prima della Costituzione. Si tratta però di un primato che non abbiamo saputo valorizzare. Abbiamo spesso copiato il peggio dello stato centralista. Sul piano delle storiche inefficienze del pubblico abbiamo avuto in questo senso un’autonomia ‘replicante’. L’autonomia invece deve esprimere grandi progettualità. Siamo l’unica regione a statuto speciale nel sud e dovevamo costituire un faro per le regioni meridionali. Così non è stato. L’ARS si è caratterizzata come luogo dello scambio politico minuto, dello spreco di risorse, di riforme mal fatte. Lo Stato andava sfidato sul terreno dell’innovazione e non chiedendo provvidenze con il cappello in mano.

-Se la sente di azzardare un bilancio sul mandato in corso di Musumeci?
Musumeci è una persona perbene, che è stato sempre in politica dalla stessa parte. Il governo con questa maggioranza può solo sopravvivere, non governare. L’immobilismo però dipende in larga misura dall’Assemblea, per le ragioni già dette, soprattutto per le pratiche di governo spartitorio che hanno caratterizzato tutte le stagioni politiche. Non c’è una maggioranza ma un sistema di feudi autoreferenziali che negoziano su tutto e, se non riescono a ottenere ciò che chiedono, si contrappongono dei veti a vicenda.

– E delle forze di opposizione?Ciò vale anche per l’opposizione. Ciascun gruppo vuole riconosciuto una quota di potere a cui crede di avere diritto altrimenti transita da un centro all’altro. La transumanza qui è sistemica, non fa notizia a differenza di quanto avviene a Roma.

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Le discariche della discordia: il blitz di Mazzarrà S.Andrea e i controlli in Sicilia @GrandangoloAg

di Elena Giordano

http://www.grandangoloagrigento.it/le-discariche-della-discordia-il-blitz-di-mazzarra-s-andrea-e-i-controlli-in-sicilia/

MESSINA – Il sindaco di Mazzarà Sant’Andrea, Salvatore Bucolo, è stato arrestato stamattina dalla Guardia di finanza nell’ambito dell’inchiesta ‘Riciclo’ sulla discarica del paese. Con lui, sono finiti dietro le sbarre anche tre ex amministratori di Tirreno Ambiente responsabile dell’impianto, l’ex senatore di Fi Lorenzo Piccioni, Giuseppino Innocenti e Giuseppe Antonioli.

I controlli sulle discariche siciliane hanno dato il via a più filoni investigativi e sono partiti già all’inizio del 2014, quando si cominciano ad analizzare le attività degli impianti dell’isola verso varie direzioni. Da una parte, su volontà del governo regionale, viene istituita una Commissione di controllo per la regolarità delle autorizzazioni concesse a tutte le discariche private, da un’altra, con il lavoro delle Fiamme Gialle, si avvia una verifica sulle regolarità amministrative. Quella di stamani, che si concentra sulle irregolarità nella determinazione tariffe di mitigazione ambientale, segue i provvedimenti di seguestro delle discariche Oikos, di Catania e, appunto, di Mazzarrà S.Andrea che invece hanno evidenziato “anomalie” nelle autorizzazioni. Continua a leggere “Le discariche della discordia: il blitz di Mazzarrà S.Andrea e i controlli in Sicilia @GrandangoloAg”

Catania muta, di Elena Giordano

Ho appena lasciato la Sicilia. Forse per sempre. E da dove mi trovo non posso fare a meno di pensare a Catania, la mia città. Non la penso bene, sento tutto il dolore del distacco, ma non la sento bene. Ed è per questo che ripropongo una nota che ho scritto, di getto, nell’ormai lontano 2009. L’ho riletta e mi ha sorpresa, tante cose sono cambiate nella mia vita, forse è cambiata la vita stessa, ma ahimè, per la mia città non è cambiato nulla. Niente, o quasi niente.

 

scritta il 16 marzo 2009 alle ore 11:02.

“Ieri sera non ho avuto nessuna emozione. Nessun fremito e questo mi ha stupito. Ho pensato che l’età porta ad attenuare i sussulti dell’anima, sarà, mi sono detta, anche per me il tempo passa e non ho più gli entusiasmi dei ragazzini. Non mi era mai successo, mai nella mia storia personale mi era capitato di rimanere muta. Anche con me stessa. Mi sono chiesta più volte durante la notte qual’era l’effetto di vedere Catania in quello stato, ieri su Rai tre, e stamani, solo stamani, credo di essermi data una risposta. Non mi interessa più. Non mi entusiasma e non mi esaltano più le solite storie dei buoni e i cattivi, questi ammirabili tentativi di presa di coscienza messi sul piatto da persone troppo fuori dal nostro contesto, troppo lontani da noi. Per cultura, mentalità, back gruond professionale. Ringrazio, ma non servono. Le storie dette e ripetute inutilmente che raccontano di una comunità alla deriva sono soltanto fini a se stesse. Lo dimostra il fatto che da dieci anni accadono, periodicamente vengono denunciate, ma continuano a proliferare senza fine. E allora mi sono rassegnata? Da cosa dipende questo stato delle cose? Il problema, quello vero, è che credo che per uscire da questo empasse che ci trascina inesorabilmente in basso, verso il fondo della bottiglia, dovremmo trovare la forza di fare appello alla coscienza, avere l’umiltà di mettere insieme le forze, senza guardare il bianco o il nero, i buoni o i cattivi, senza ideologismi. Che in politica è sempre una valida moda. Accettare senza se e senza ma che nessuno di noi, nessuno, è esente da reponsabilità. E che non serve, a noi, ai nostri figli, alla nostra comunità e al nostro futuro, sedersi comodamente in un divano ( come molti hanno fatto ieri) e commentare gli sfaceli fatti da altri. Sono gli altri, certo, sempre loro che rubano, depredano, permettono gli scempi. Ma noi tutti non siamo meno responsabili se restiamo in silenzio, se non alziamo il dito, anzi se non puntiamo il dito. Con nomi , cognomi, fatti. Ognuno di noi li sa, li conosce, e dunque è responsabile allo stesso modo. Dove sono stamattina quelli che ieri erano sul divano? Mi aspetterei che fossero in Procura, con le carte in mano e ognuno con le sue storie. E’ quanto di più ragionevole si possa pensare senza essere additati come sporchi comunisti o violenti fasciti. E’ semplicemente una logica deduzione. Purtoppo non è così, i magistrati non hanno nessuno davanti alla porta, i buoni sono di nuovo al lavoro a coltivarsi il proprio orticello e magari a compiacersi di non essere stati menzionati dalla collega di Report. E i cattivi se la ridono. Tanto, nessuno avrebbe il coraggio…Non è mafia questa signori miei. La Mafia ( che fa orrore) ha inculcato ai siciliani una sola cosa, la cultura dell’Onore. E noi non ne abbiamo. E siccome, questa è la frittata. Io resto muta. Con me stessa soprattutto.

Memoria corta

Estate 1988. Vacanze con gli amici all’est. Prima della caduta del muro. Vacanze in due repubbliche socialcomuniste come l’Ungheria e la Cecoslovacchia, abbastanza avanzate, ma povere per gli standard occidentali dell’epoca. A scrivere questo articolo mi sento vecchio,  visto che si tratta di un viaggio di 27 anni fa. Vacanze in auto. Una lancia delta del 1980 bianca ed una citroen bx 11 del 1987 rosso Ferrari. Facevamo un figurone con due auto da studenti squattrinati a giro per l’Europa. Ai cittadini dell’est sembravamo ricchissimi. Abbiamo visitato non solo Praga e Budapest, ma anche i paesini di passaggio sconosciuti ai più. Senza saperlo eravamo vicini alla fine di quel sistema politico che sarebbe crollato poco più di anno dopo. Già allora se avessero potuto… molti cittadini dell’est sarebbero venuti con noi in occidente. Ed infatti poi dopo la caduta del muro li abbiamo accolti.Accolti. Ripeto il concetto. Oggi vedo e leggo che alcuni paesi dell’Est tra cui l’Ungheria, la Rep. Ceca e la Slovacchia, sono i più rigidi nell’accoglienza. Sinceramente questa cosa mi fa arrabbiare molto. L’Europa le ha accolti a suo tempo a braccia aperte ed oggi loro sono i più restii ad aiutare altri in difficoltà. Mi dispiace ma penso che tali paesi, se non cambieranno posizione, non possono rimanere nell’Unione Europea. La mancanza di solidarietà tra gli stati membri nel ripartirsi i numerosi profughi non è tollerabile, e l’aver visto di persona ventisette anni fa la vs condizione, mi fa essere meno tenero con voi oggi.

di Salvatore Calleri

Enzo Rovella, Io Pittore metropolitano @ILSmagazine

rovella

di Elena Giordano

Catanese di nascita ma cittadino del mondo, le suo opere evocano luoghi non sempre veri, spesso virtuali, immaginati, non bene identificati: “Per me essere nato in Sicilia è solo un fatto casuale e geografico. La bellezza è qui come altrove”

Nel suo lavoro la Sicilia è assente. Nessun colore, nessun tratto, neanche una minima citazione. Per la verità, parliamo d’istinto, quello che l’artista catanese Enzo Rovella rimanda a un primo approccio, è solo una perfetta rappresentazione del suo tempo. Contemporaneo e, soprattutto, specchio della sua generazione: gli anni Ottanta/ Novanta, con quel più e meno che ieri c’era e oggi, nei giovanissimi emergenti, non c’è più. E non solo. Tutto il percorso artistico dell’ormai affermato pittore sembra avere una precisa colonna sonora. Sead alcune sue immagini come Landscape, ad esempio, Metropolis o Volo verso il Rosso attribuiremmo una musica, niente sarebbe più appropriato della cavalcata di “Fino alla fine del mondo” (dal film di Wim Wenders) del lontano 1999. Perché se è vero che le arti, in questo caso pittura e musica, descrivono sensazioni, ricordi, sogni e certezze di un periodo, l’opera di Rovella evoca allo stesso modo quelle note, in cui si racconta, anche lì, un viaggio intorno al mondo. Un mondo non sempre vero, spesso virtuale, immaginato, non bene identificato e, comunque, che non cita mai un perfetto un luogo fisico. Nelle sue opere non c’è alcun richiamo alla sua terra d’appartenenza, come mai? “Non lo so, forse perché non me ne frega niente di avere una collocazione. Io sono metropolitano, punto. Trovo riduttiva questa cosa di trasmettere l’idea di un luogo, in questo caso la mia sicilianità, il mio lavoro non è territoriale e anche Demetrio Paparoni (critico d’arte contemporanea e direttore di Tema Celeste,ndr), quando mi ha scoperto, ha fatto la stessa osservazione”. Bel caratterino. Crede di essere di un altro pianeta? “E perché no, forse sto nella Luna. Guardi un qualsiasi mio quadro, è astratto ma evoca un paesaggio, in realtà è solo una mia immaginazione, ognuno può vederci quel che vuole. I colleghi palermitani ad esempio, hanno un rapporto molto più forte con la nostra terra d’origine, sono quasi tutti figurativi, ne citano molto i colori, le sensazioni. Per me invece, essere nato in Sicilia è solo un fatto casuale e geografico. La bellezza è qui come altrove”. È appena rientrato da una mostra in Cina dove ha riscosso un buon successo. È stato anche premiato come migliore artista contemporaneo europeo. Presto sarà ospite anche in Iran, si monterà la testa? “Certamente è stata una grande soddisfazione, è un bel momento per la mia vita professionale. Sono stati lunghi gli anni in cui facevo giri a vuoto pur di far conoscere il mio pensiero. Non è mai facile per un giovane artista e, in questo caso è vero, per uno che viene dal Sud. In Cina hanno comprato le mie opere, sono un popolo colto e raffinato, essere riconosciuto da quel mercato mi riempie d’orgoglio. Prima dell’Iran c’è Genova, una famosissima azienda di tessuti ha scelto quattro artisti italiani, tracui il sottoscritto, per disegnare la nuova collezione”. Ma lei come ha cominciato? Ci racconti il suo percorso artistico? “Tutta la mia famiglia ama l’arte. Da piccolo, i miei professori si accorgevano che ero totalmente distratto, non seguivo nessuna lezione che non riguardasseil disegno. Stavo continuamente a disegnare, ovunque, tappezzavo le pareti con centinaia di ‘pizzini’. Poi l’Istituto d’Arte mi ha dato una forma, i primi lavori avevano una forte influenza grafica, fino alla maturazione. Un’artista per crescere deve poi viaggiare, rinnovarsi, ascoltare, anticipare, frequentare il mondo dei creativi, i circoli culturali, le gallerie. Non è una via facile, ma serve determinazione”. Diciamo che poteva permetterselo “Nel senso che la mia famiglia mi ha dato i mezzi? Sì, certo ma questo non vuol dire niente, l’avrei fatto comunque. Partivo per conoscere altri artisti e galleristi senza sapere quanti mi avrebbero mandato a quel paese. Non ha idea di come e per quanto tempo mi abbiano snobbato. Ho avuto costanza, che è quella che non deve mai mancare. Poi è arrivata la svolta, tra il 1995 e il 1996, devo dire grazie a Rosanna Musumeci, la prima gallerista che ha investito su di me. Poi, naturalmente al mio guru, Demetrio Paparoni e a Francesco Rovella di Carta Bianca, il mio attuale agente”. Come è andata la storia? Paparoni è conosciuto per essere un osso duro “Demetrio era a Siracusa per assistere all’inaugurazione di una mostra di Martin Disler e io sono andato. Tutti lo temevano perché è un tipo stano, è molto difficile avvicinarlo, ma mi sono fatto venire un po’ di coraggio e gli ho chiesto di dare un’occhiata a un mio quadro. Era un 30×33, naturalmente mi rimproverò per non aver chiesto preventivamente un appuntamento, ma lo osservò a lungo. Fu un’occasione fortunata, è stato l’inizio vero della mia carriera. Da lì a breve mi diede l’opportunità di partecipare a una collettiva organizzata da Fabio Sargentini, gallerista d’avanguardia e direttore della storica galleria l’Attico di Roma”. Oggi ha una buona quotazione, si ritiene soddisfatto? “La prima vera quotazione arrivò da un’altra mostra importante che feci a Firenze, era la mia prima vera personale importante curata da Paparoni e grazie a Sergio Tossi. Il gallerista è un nome autorevole, vendeva già i grandi nomi americani come Russel Scarpulla. Oggi le mie opere sono vendute bene. Nell’arte è tutta una questione di tempo”. La critica d’arte Beatrice Buscaroli definisce la sua pittura “un’ascesi silenziosissima”. Che vuol dire? “Credo che si riferisca al mio rigore, all’esigenza personalissima di chiudermi nel mio studio per buttarmi sulle tele. Una necessità fortissima di ‘silenzio e pittura’, di bellezza. Sono un esteta estremo, cerco la bellezza in tutte le sue forme, a volte mi chiedono se il valore estetico non sia diventato per me una forma di ossessione. Io credo che più di ossessione si debba parlare di ‘urgenza’, un’opera d’arte del resto dev’essere forte, moderna, riconoscibile anche per i suoi tratti estetici”. Per chiudere con la Bellezza. Lei non dipinge la Sicilia, ma qual è la cosa più bella che trova nella sua Isola? “Direi la luce, secondo me non esiste altro posto al mondo che abbia l’intensità e i riflessi di cui noi godiamo ogni giorno. È energia pura, è contrasto. E’vita”.

Elita Schillaci, Start and Go – intervista all’ex preside della facoltà di Economia di Catania @ILSmagazine

schillaci

di Elena Giordano

Chiedetele tutto, ma non di se stessa. Elita Schillaci,ex preside della facoltà di Economia di Catania e professore ordinario di management in un mondo tradizionalmente al maschile, ha imparato che nella vita di una donna di talento due sono le regole da non dimenticare: mettere cuore in tutto quello che si fa, ma non dirlo a nessuno. E la ragione è una sola. Se la passione e l’energia nel lavoro sono quelle marce in più tipicamente femminili è anche vero che mostrarle potrebbe non essere compreso. Infatti, lei, tranchant, afferma “sono un professore e basta”. Così proviamo a forzare e, alla fine, per accorciare le distanze, tra un panino e una telefonata, una chiacchiera con un collega e un caffè, ci ritroviamo a parlare non solo di start up (la sua specialità fin dal 1980) ma anche di figli (i suoi), di speranze, di futuro, della vita in generale. Il modo in cui Elita Schillaci, seduta alla sua scrivania, si rappresenta, è già tutto, spegne in fretta il pc, si abbottona decisa una giacca gialla e punta i suoi occhi magnetici: “La mia vita è qui – esclama – è questa la perfetta rappresentazione di me stessa”. La professoressa, è certo, ha una spinta in più che si chiama carisma. E non l’ha appreso a scuola. Lei è fatta così. “L’economia? Per me è stata una ragione di vita. Mi sono laureata giovanissima e poi, subito, sono andata a studiare le start up alla New York University. In quegli anni, circa trent’anni fa, non era così facile come oggi oltrepassare l’oceano e parlare di management e start up venendo dalla Sicilia”. Quando gli anni passano – diceva Vittorio Foa – si tende a ritirarsi, infastiditi, dai riflettori, o si sceglie la confessione di sé senza falsi pudori. Lei è una donna autentica, trasparente ma pudica, nel suo intimo. Perché ama poco parlare del suo privato? “Perché credo che il ‘privato’ sia nella vita di ogni giorno, nelle azioni quotidiane. Il racconto della tua vita è il tuo stesso vissuto. Non vedo grande distinzione tra pubblico e privato”. Qual è il suo metro per giudicare chi le sta di fronte? “La capacità delle persone di costruire rapporti seri, relazioni durature, progetti solidi. La reale coerenza tra ciò che si dice di fare e ciò che si fa e tra ciò che si fa e ciò che si dice di fare. Purtroppo nella società in cui viviamo c’è un totale scollamento tra le tre dimensioni”. Cosa non le piace? “Non mi piace la voglia di distruzione. Non mi piace l’entropia. La gente pensa che i sentimenti e la parte affettiva di ognuno di noi non debbano essere coinvolti con la parte professionale. Questo ha portato a una differenziazione emozionale. Si assiste a uno sdoppiamento della persona. E poi l’avidità, che sta sotto gli occhi ditutti. Oggi la spiritualità e la morale scarseggiano nella costruzione delle nostre attività quotidiane”. Che rapporto ha con la ricchezza? “Penso che sia importante possedere solo ciò che realmente può servire. Nel mio caso mi basta avere il necessario per garantire alle mie figlie di andare avanti con gli studi e avere il migliore bagaglio di competenze”. Qual è la sua grande passione, nella vita, oltre che l’economia? “La lettura e il viaggio. Leggo contemporaneamente tre o quattro libri per volta e li porto con me, anche se vado via solo per un giorno. Un libro rappresenta un compagno, mentre viaggiare serve ad aiutarmi in un percorso di conoscenza profonda delle cose, del mondo e di me stessa. Ho cominciato ad appassionarmi ai libri da piccola, con la lettura dei grandi classici, ho proseguito per tutta la vita con scelte diverse. Per quanto riguarda i viaggi mi piace citare Tiziano Terzani, che sto leggendo in questi giorni: ‘Ogni viaggio ha senso se si torna con qualche risposta nella valigia’”. Sta per presentare due nuove iniziative che le stanno molto a cuore. Di cosa si tratta? “Siamo in procinto di far partire una nuova iniziativa per lo sviluppo dei talenti giovanili, la Svff (Social Venture Foundation Philantropy), con l’obiettivo di modificare alla radice il modello produttivo

siciliano riequilibrando il fattore del profitto con quello della responsabilità sociale e del rapporto virtuoso con i territori. In sintesi: un ecosistema d’imprenditorialità dinamico e filantropico che aiuti i giovani a riprendere fiducia e a creare lavoro. Abbiamo creato una Fondazione di comunità e vogliamo che tutto il territorio siciliano si unisca a questo progetto per aiutare i giovani in una visione di responsabilità sociale e di nuova progettualità. Un contenitore di vivacità e di proposte condivise, dove l’imprenditoria e la finanza più “illuminate”, in un’ottica di give-back, sostengano queste iniziative e riescano a coniugare, merito, progettualità e fiducia”. E la seconda?

“Il secondo progetto, che sarà presentato tra qualche giorno, nasce dalla collaborazione tra Università e Regione. Si chiama ‘Promozione di nuovi processi imprenditoriali eco-sostenibili nelle aree a elevato rischio di crisi ambientale’ e ha l’obiettivo di promuovere la creazione di start up giovanili a elevato contenuto d’innovazione sociale in Sicilia, particolarmente nelle aree di Gela, Milazzo e Priolo, definite tecnicamente ‘a elevato rischio di crisi ambientale’ per la prossimità agli insediamenti petrolchimici e per il correlato degrado ambientale, sanitario e sociale. Si tratta di un progetto che nasce da uno studio approfondito sui nuovi scenari di competitività etica e responsabilità sociale. Ci siamo concentrati su Gela, Milazzo e Priolo, per immaginare, e dunque facilitare in quei luoghi, le opportunità di nuova impresa, in altre parole start up, dirette a ripensare il loro sviluppo”. Si occupa di start up dal 1980. Quali sono le giovani imprese che ha seguito con “affetto”? “Tutti i ragazzi che ho seguito in questi anni sono ancora in contatto con me. Molti di loro hanno avuto successo e questa è una bellissima soddisfazione. Tra le ultime, credo che Ipress, Biomasse e Seejay siano degli esempi di come una buona idea possa diventare impresa”. Cosa fa nei suoi momenti liberi? “I miei momenti liberi per la verità sono rarissimi. Per fortuna vivo una realtà professionale molto dinamica e che mi piace molto. Per il resto, ovviamente, quando riesco a ritagliarmi degli spazi, penso alla mia famiglia, a mio marito e alle mie figlie, con cui condividiamo il piacere di discutere molto e su tutto.

Le sue figlie che faranno da grandi? Che cosa ha consigliato? “Le mie figlie sono Ludovica e Ottavia e solo una ha deciso di studiare economia. La grande, venticinque anni, vive a Berlino e l’altra, ventidue, a Copenaghen e si occupa di architettura digitale. Non ho consigliato nulla, hanno deciso da sole. Però per ambedue devo gestire un delicatissimo ‘trade-off’ perché, da un lato, le spingo a diventare cittadine del mondo perché imparino a lavorare sulle proprie competenze e sui propri meriti, vincendo così, l’egoismo di madre; dall’altro cerco di tenerle legate ai valori della famiglia e degli affetti. Come ha detto qualcuno le madri dell’anima dei propri figli”. Che cosa pensa della politica e del momento storico che sta attraversando il nostro Paese?

“Viviamo in una fase di grande crisi economica, sociale e istituzionale in cui la litigiosità è elevatissima non solo tra i vari gruppi, ma anche all’interno di questi. Penso sia necessario ripartire da messaggi di fiducia e speranza, seguire un po’ quello che sta facendo Papa Francesco, il quale sta lavorando molto bene sul concetto di ‘church-reputation’. Ecco, credo che il lavoro più importante che il nostro nuovo Presidente del Consiglio debba fare, sia di costruire una nuova vision del Paese”. Cos’è per lei la bellezza? “Armonia ed equilibrio”. Cosa ha desiderato di più nella vita e non è riuscita ad avere? “Il punto non è desiderare, ma cosa si fa durante il percorso in cui si è alla ricerca di qualcosa. A me interessano molto di più i percorsi che i desideri di per sé”. Qual è il suo piatto preferito? “Quello che sto cercando di non mangiare più. Il filetto ai ferri. Dicono che a una certa età si debba eliminare la carne rossa”. Cos’è per lei l’amicizia? “Trasparenza e lealtà”. Si ritiene una persona leale? È mai stata accusata di non esserlo? “Credo e spero di sì. In ogni caso tendo a esserlo e ho pagato quasi sempre per questo”. Che rapporto ha con la fede? “Per me la fede è soprattutto riportare il ragionamento su di sé e sulla propria spiritualità. Anche in questo caso voglio citarle un piccolo libro di Vito Mancuso, che ho letto a Natale scorso e che si chiama ‘Conversazioni con Carlo Maria Martini’. Mancuso riporta un dialogo tra un uomo di Chiesa, il cardinale Martini per l’appunto, e un laico, Eugenio Scalfari. Quello che ne viene fuori è che, di là dalle etichette religiose, la via della comprensione di un uomo è innanzi tutto la sua dimensione spirituale. È questa che caratterizza l’uomo stesso”

L’era del Rettore rosso Intervista a Giacomo Pignataro, Rettore Università di Catania @ILSmagazine

giacomo pignataro – rettore università di Catania

di Elena Giordano

Dice che il suo colore è il rosso, poi ci pensa e si fa una gran risata. “Ora che ho detto questo tutti penseranno a un colore politico” Giacomo Pignataro, eletto da poco più di un mese Rettore dell’Università di Catania, è una sorpresa. Non solo perché è lì, ad attenderci pacioso e divertito ma, soprattutto, perché per ogni cosa che svela della sua vita lo fa con una buona dose di autoironia. “Sbagliate se alludete alle mie amicizie di sinistra – chiarisce – ho parlato del rosso perché è un colore che mi piace e mi rappresenta. Così, senza una vera ragione, nella vita” E chi lo avrebbe mai detto. Sì, perché la prima impressione è quella di un uomo senza particolari “fuochi” interiori, e anche perché la sua storia e la sua carriera, raccontata da chi non lo conosce davvero, sembrano quella di un accademico tutto di un pezzo, più da biblioteca che da passioni. “In effetti, se credete di trovare in me qualche scoop resterete delusi – aggiunge – ha ragione chi lo pensa, io sono un uomo noioso”. Ma in realtà il professore Pignataro mente. E lo fa consapevolmente perché, un minuto dopo, non solo si presta, come se lo avesse sempre fatto, all’esame quasi radiografico dell’obiettivo del fotografo, ma ci svela particolari inaspettati. “Il mio film preferito di quest’anno? Django, di Tarantino”. Scusate se è poco. “E’ un film “forte” lo ammetto, come tutti quelli di Tarantino, da me vi sareste aspettati un Tornatore o un Haneke, ma Django mi ha divertito, non per nulla tra i due Oscar che ha preso, uno è stato per la migliore sceneggiatura originale”. Così mentre gongola a far “passerella” nei corridoi bianchi e barocchi del chiostro del Rettorato confida sornione “Se mi vedesse mia moglie, penserebbe che ho la classica crisi dei cinquant’anni. Ne approfitto ora che con la stampa è un momento favorevole, più in là potrebbe capitare che la luna di miele finisca”. In effetti anche il commesso storico dell’Università lo pensa, mentre muto e impietrito resta lì sull’uscio, con uno sguardo perso. “ Da giovane sono stato iscritto alla Fgci ma che vuol dire? Come tutti i ragazzi ho avuto le mie passioni politiche e ho fatto le mie battaglie ideologiche, oggi non mi sentireste in alcun modo sbilanciarmi su qualcuno o su qualcosa che possa far riferimento alla politica, al Governo o all’amministrazione di questa città”. Il Rettore si definisce “battagliero” e su questo particolare, forse, ha fatto leva per la sua elezione “Se per battagliero intendete uno che va fino in fondo alle questioni allora sì, mi identifico. Del resto so che non è stata una tornata elettorale scontata, il professore Giuseppe Vecchio, mio maggiore antagonista, era abbastanza forte anche se poi ( al ballottaggio, ndr) ha deciso di ritirarsi dalla competizione. Io comunque non ho avuto ansie, ho atteso tranquillo i risultati, non ho neanche seguito lo spoglio. Poi, credo che quello che abbia contato per la mia vittoria è stato il consenso di tutti coloro che hanno creduto che il momento era cruciale, oggi è tutto un disastro o si cambia o si muore. Le Università siciliane hanno registrato un numero di iscrizioni così basso che il dato è davvero allarmante. Bisogna rimboccarsi le maniche ed essere consapevoli che bisogna cambiare mentalità, modo di vedere il mondo. I miei colleghi e l’elettorato hanno capito che le mie proposte funzionavano, che scaturivano da un’attenzione verso il sentire comune della mia comunità“ Snocciola la sua ricetta il Rettore, parla di programmazione, merito e responsabilità sociale “Il mondo è cambiato, o pensiamo di cominciare a progettare, di presentare proposte scientifiche valide che ci permettano di attingere ai fondi europei, o non andremo da nessuna parte. Per far questo dobbiamo essere capaci, al pari di altri atenei italiani che lo hanno saputo fare e, soprattutto, ammettere che bisogna puntare sul merito delle persone. Il clientelismo e il familismo sono un fenomeno che esiste dappertutto ma in Italia ha assunto dimensioni davvero patologiche” Ma cosa fa il professore Pignataro quando non lavora? “Guardi, da quando mi sono insediato non ho più il tempo neanche per fare una passeggiata. O lavoro o dormo. La mia giornata inizia alle 5.30 del mattino, perché è l’unico momento che ho per leggere la posta, poi è tutta una corsa fino a sera tardi, quando crollo di stanchezza. Ma sapevo a cosa andavo incontro”. La sua immagine, man mano che la conversazione si scioglie, prende sempre di più i contorni di quella di una persona d’azione “Il mio mentore è il professore Emilio Giardina – esclama- mio maestro di scienza e di vita. Con lui ho avuto il privilegio di crescere e lavorare assieme a un gruppo di grandi studiosi. Ma non mi ha insegnato soltanto l’amore e la passione per l’economia e lo studio, mi ha donato anche il senso dell’humor, il suo è strepitoso”. Il rettore è professore ordinario di Economia e Scienza delle Finanze e ricopre l’incarico dal 2002. Si è occupato “del tema della valutazione economica e quello della regolamentazione dei monopoli, dai beni culturali all’efficienze degli acquisti e dei lavori pubblici”. Nel 2005 è stato eletto rappresentante dei docenti del Consiglio d’Amministrazione dell’Ateneo e poi riconfermato nel 2008, poi nel febbraio 2009 fino al dicembre 2010 è stato Presidente della Scuola Superiore di Catania. “Lo sport? Non me ne parli, sono un pigrone, fosse per me non muoverei neppure un dito. Mio figlio, che ha 15 anni, ogni tanto mi trascina a far qualcosa, ad andare al mare, ma è un sacrificio.” Pignataro viene da Caltagirone, il fratello, Francesco, è stato a lungo il sindaco della città delle ceramiche “Lì ho i miei amici storici ma non vado quasi mai, da trent’anni la mia vita si svolge totalmente a Catania. Mia moglie? L’ho conosciuta all’università, da studente, e non ci siamo più lasciati. Non si preoccupi, non fa il professore, è commercialista”. Dicono che non sia un uomo per tutte le stagioni il Rettore, infatti, non punta a piacere ad ogni costo. “Bisogna essere persone serie – dice – cambiare stile, e quando dico questo intendo che ciò che conta è recuperare credibilità”. Ai giovani e ai suoi studenti raccomanda curiosità, impegno e passione “Stay foolish, di Steve Jobs, era un bel consiglio, ma io aggiungerei che la curiosità e la genialità non bastano da sole. Mi riferisco alle Start up che i nostri giovani mettono in piedi, affinchè un’idea, anche un’ottima idea, si sviluppi e sfondi, bisogna imparare a saper bene amministrare, a conoscere i metodi dell’organizzazione aziendale. Non si cresce soltanto con le idee”. Svela di essere un gran viaggiatore ma è rimasto affascinato da San Francisco “Perché? Neanche a dirlo, si ricordi che è la città della Silicon Valley, un’area geografica che si distingue per vivacità intellettuale. Catania, in un certo momento, aveva provato a replicare il modello, i talenti ci sono, vorrei riprendere il discorso rimasto in sospeso con l’Etna Valley. Ho sentito Crocetta e gli ho detto che bisogna collaborare, fare massa critica per promuovere lo sviluppo”. In chiusura chiediamo al Rettore se è stato un buon studente, lui si rimette la giacca, si alza in piedi e sorride “vi mostrerò il libretto, quello scritto a penna che oggi non esiste più, sarò fiero di esibire voti di tutto rispetto ottenuti da veri geni dell’economia italiana”.

Due signore in Procura Intervista ai Procuratori della Repubblica di Catania Marisa Scavo e Iole Boscarino @ILSmagazine

di Elena Giordano – marzo 2013

Quando le incontriamo, in Italia è appena passato un ciclone. Anzi, uno “tsunami”, che ha determinato una metamorfosi, travolgendo definitivamente anche la Terza Repubblica. E loro ne sono consapevoli. Così come hanno chiaro di essere nel bel mezzo di una nuova Tangentopoli “perché proprio a vent’anni esatti dal primo, assistiamo a un nuovo fenomeno di corruzione e saccheggio delle risorse pubbliche”. Insomma, di cose per le quali stare allegri ce ne sono poche. Ma è in questi momenti che occorre essere ancora più determinati. E questa è una caratteristica che a loro di certo non manca. Eccole Marisa Scavo e Iole Boscarino, due delle donne “forti” della Procura di Catania, rispettivamente coordinatore del pool antipedofilia e sostituto alla Dda. Agli antipodi per temperamento, abitudini, visione della vita le due “magistrate” catanesi stanno lì, tra quei pochi (ma buoni) pilastri rimasti a sorreggere il cornicione delle Istituzioni e, benché spesso pezzi di muro gli cadano in testa, restano immobili, occupandosi “insieme a ottimi colleghi” di delicatissime indagini che riguardano da una parte (Marisa Scavo) pedofilia, stalking, violenze sessuali, femminicidi e reati contro la famiglia, dall’altra (Iole Boscarino) mafia e quindi omicidi, estorsioni, concussione, e tutto quello che riguarda “i reati attinenti alla limitazione della libertà personale in tutte le sue forme, dalla violenza privata fino all’uso distorto del potere pubblico”.

Guai a parlare di casi specifici però. Poi, quasi a bocca chiusa, ammettono che “nessuna critica è da fare ai magistrati che scelgono la politica. È un loro diritto costituzionalmente garantito, purché si faccia una scelta chiara e precisa”. Finché si è magistrati, insomma, non è opportuno esprimersi, ed “è evidente che  – spiega la Boscarino – non deve trapelare in alcun modo ciò che personalmente pensiamo anche nelle azioni quotidiane”. Tra i loro colleghi candidati alle ultime politiche, solo uno, Piero Grasso, siede oggi in Parlamento; l’altro, Antonio Ingroia, non ha ottenuto il risultato sperato.

Pronte a festeggiare l’anniversario dei 50 anni dal primo concorso per le donne italiane in magistratura (era il 1965 quando, dopo un concorso con 5.600 candidati, vennero nominate le prime otto donne magistrato), Marisa Scavo e Iole Boscarino hanno una certezza: “Le donne hanno una marcia in più”. E non si riferiscono alla “congenita” competizione tra uomini e donne, ma al fatto che l’ambiente circostante “anche fuori dal tribunale” per una donna non è sempre favorevole e che “per fare qualunque mestiere devi avere tanta forza e tanta determinazione”.

Una di indole battagliero, che conduce indagini, anche internazionali, su abusi orrendi commessi sui minori e gravi e frequenti atti di violenza domestica. L’altra, mamma di due bambini, “timida” ma anche “determinata e coraggiosa”, che ha in mano, insieme ai noti colleghi Giuseppe Gennaro, Antonino Fanara e Agata Santonocito, uno dei grandi e più delicati processi catanesi degli ultimi anni: Iblis, l’inchiesta che vede imputati l’ex Governatore Raffaele Lombardo e suo fratello Angelo di concorso esterno per associazione mafiosa. E con loro altri politici, imprenditori, colletti bianchi, ma anche decine di boss dal pedigree di tutto rispetto.
Marisa Scavo, bella donna dai tratti mediterranei, è cordiale, dal sorriso contagioso e accetta di parlare di sé a condizione “che possa andare prima dal parrucchiere”. Uno dei suoi due figli, il più grande “è appassionato di sport, andrà a studiare diritto sportivo a Milano, anche se avrebbe fatto volentieri il calciatore”. E la magistratura? “Non se lo sogna neanche di entrare, e io sono d’accordo con lui”. Iole Boscarino, giovane donna e mamma di due piccoli di 6 e 8 anni, è affezionata al suo profilo basso “perché di estetiste e belletti non me ne frega niente”. In più è tifosa sfegatata del Catania e “se il lavoro e i bambini lo permettono” lascia tutti la domenica per scappare allo stadio.
La Scavo spiega che le sue sono inchieste particolari: “È chiaro che quelli che perseguiamo sono reati che hanno anche una fortissima componente psicologica e non solo per chi li commette, che naturalmente soffre di gravi disturbi psicopatici; ma anche per le vittime, che dobbiamo provvedere a sorreggere e monitorare costantemente proprio per la serietà delle violenze subite. Un bambino che ha subito questo tipo di violenze da piccolo sarà un adulto con problemi molto seri”. Sono sue, tra le altre, la recente maxi operazione Rescue che ha visto indagati 459 pedofili in tutto il mondo tra cui 71 italiani; l’indagine su una madre che violentava il figlioletto con oggetti sacri e vestita da suora; quella dell’insospettabile marito e padre sieropositivo che adescava (e dunque contagiava) ragazzini su internet per poche decine di euro; l’ultima, di pochi giorni fa, di quell’affermato ematologo che effettuava in ospedale visite particolarmente approfondite sulle pazienti più giovani. Il magistrato, che ama ricordare la battaglia di Rosa Oliva, aspirante Prefetto nel 1960, contro una legge del ’19 che impediva l’accesso delle donne nei pubblici uffici, insiste sui diritti garantiti dalla Costituzione “nonostante siano passati cinquant’anni dalla redazione dell’art.51, dobbiamo ammettere che ancora il nostro è un Paese prettamente maschilista. È un consolidato atteggiamento culturale e il pregiudizio verso le donne e il loro accesso a posizioni apicali nella professione è ancora molto forte”.
Ha iniziato presto la Scavo, nel 1980, a soli 33 anni era già Pretore a Gela “già prima che arrivassi mi dicevano che non avrei potuto esercitare perché mi sarei messa subito in maternità. Pensi che proprio per smontare queste dicerie aspettai ben sei anni prima di decidere di fare il primo figlio”. Legge i classici della letteratura europea, ama Tracy Chevalier, cucina “tutti i giorni per la mia famiglia” e sostiene che “il mondo non si può cambiare, ma ognuno di noi può dare un contributo per migliorarlo”. Ama la sua città “che però vive nel totale disprezzo delle regole” e adora viaggiare “con i miei ragazzi e mio marito” al quale è legata da quando aveva 15 anni. Ma cosa prova una madre, che è anche magistrato, quando interroga qualcuno accusato di aver violato un bambino? “Rispetto alle persone offese cerco sempre di far scattare un rapporto di empatia, di conquistare la fiducia di qualcuno che è profondamente diffidente e impaurito. Gli imputati invece ci provano sempre, solo per il fatto di trovarsi davanti una donna credono che si possano far scattare certe corde emozionali. Puntano alla nostra sensibilità e quindi mettono in campo una serie di meccanismi per intenerirci. È storia vecchia a cui sono abituata”. La signora Scavo è una donna elegante “sono sempre stata attenta ai particolari, anche oggi che ho un’età matura, credo che una donna debba esprimere fino in fondo la sua femminilità”
Iole Boscarino a 35 anni era già alla Dda. “Non sono una persona che perde la calma facilmente e non credo di aver mai accusato qualcuno ingiustamente. I processi lo confermano. La sicurezza? “Non mi sono mai posta il problema di quella mia personale – spiega – ho la scorta ma quando posso ne faccio a meno. Tutti noi, qui dentro, diamo per scontato che il nostro è un lavoro rischioso, ma la spinta verso la verità è sempre più forte”. Parla di “spinta”, di “coraggio” e di “cuore” il sostituto procuratore, ed è questa spinta “che in Marisa ho sempre ammirato”, che le permette di indagare sulle grandi famiglie catanesi di mafia che fanno capo ai Santapaola-Ercolano. “È chiaro che abbiamo a che fare tutti i giorni con imputati di ‘spessore’ – dice – ma il nostro è un pool competente e coeso, siamo una vera squadra e grazie alla collaborazione di tutti, al costante dibattito e confronto interno, sono sempre tranquilla di essere sulla strada giusta. Certo, è inutile negarlo, quando siamo alle prese con un’indagine di qualunque tipo, coinvolgiamo anche il cuore; è inevitabile che ognuno di noi metta dentro anche una parte di sé”. Oltre al processo Iblis, su cui è concentrata ma di cui non vuol parlare, ricorda Cherubino “in cui ho ottenuto il sequestro di tutto, un enorme patrimonio immobiliare e societario. Questo processo ha sconfitto il monopolio nel settore delle pompe funebri della famiglia D’Emanuele, cugini di primo grado di Nitto Santapaola”, ma anche l’arresto del boss Lucio Tusa, con l’operazione Gabel “appartenente alla famiglia dei Madonia, unico e importante elemento di raccordo tra i catanesi e Cosa Nostra palermitana anche grazie al fratello Francesco che vive a Bagheria”.

Se dovesse scegliere un altro luogo per vivere “Catania a parte, perché la amo”, si trasferirebbe in Australia “perché quel popolo vive in serenità e nel massimo rispetto delle regole”. Legge, e tanto: Alicia Gomenez Barthlet, Camilleri e Carofiglio “ma anche Ken Follet”; ama il teatro “ abbiamo da sempre un palco al Teatro Massimo Bellini e non mi perdo neanche una rappresentazione classica a Siracusa” ma pensa ai bambini “perché Catania in questo ha una buona offerta, specie per i ragazzi”. Adora da sempre l’inchiesta “anche se da ragazzina avrei voluto fare la giornalista” e con il marito, esperto di informatica, condivide la passione per la cucina “a volte la sera, anche se tardi, decidiamo di trovare una ricetta sul web e la sperimentiamo. È terapeutico, sono bravissima a cucinare la caponata di mia nonna, ma questo è il periodo delle ricette di pesce”. Mentre sorregge un grosso faldone in mano riflette a voce alta: “Cerco sempre di guardare negli occhi le persone, di capire quello che c’è dietro a ogni reato. Anche il più pericoloso dei criminali ha il diritto di essere ascoltato con attenzione. Anche se sono qui solo per applicare la legge”. E della mafia che cosa pensa? “Le indagini patrimoniali costituiscono il vero valore aggiunto nelle operazioni anticrimine condotte contro le organizzazioni mafiose. Oggi questo è uno strumento prezioso che ci ha permesso di fare enormi passi in avanti. Se la sconfiggeremo? Guardi, la mafia è ormai nel Dna dei siciliani…”.

www.ilovesicilia.it – intervista a Francesco Foti. di Elena Giordano

foti

Ha i capelli disordinati e lunghi fino alle spalle ma non lo fa per un’improvvisa voglia di sciatteria.  La metamorfosi di Francesco Foti, da tutti considerato un bello dello spettacolo, è solo “temporanea”, e viene dalla necessità di calarsi nei panni di Gounkel, a teatro. “E’ per un’esigenza di scena – precisa – ho un ruolo in Un’impresa difficile, al teatro Machiavelli di Catania, in corso in questi giorni.” Nell’opera di Hanoch Levin, drammaturgo israeliano prematuramente scomparso, l’attore interpreta  la parte di un folle, Gounkel appunto , che irrompe in piena notte a casa di una coppia in crisi stravolgendone certezze e consuetudini consolidate. “Quando ho fatto il provino mi sono scelto anche il look. Era necessario creare il personaggio, trasandato e inquieto. Questa nuova esperienza è’ capitata per caso, la regista Emanuela Pistone mi ha preso di sorpresa affidandomi la parTE, non ho ancora capito se sono un personaggio reale o un demone che turba il sonno di questi sposi. Sicuramente un personaggio inquietante”.

L’attore catanese, che vedremo proprio in questi giorni in Tutta la musica del cuore una nuova fiction di Rai Uno, sembra il simbolo della Sicilia di cui siamo orgogliosi. Quella terra piena di bravi ragazzi, luogo del talento e del sudore, senza raccomandazioni né scorciatoie. Checco, così lo chiamano madre e fratelli, se fosse rimasto uno sconosciuto sarebbe la stessa persona. Ed è tanto schivo che lo incontriamo a casa, tanto per farlo sentire a suo agio  “Sono il lupo più socievole del mondo – spiega-  il mio lavoro imporrebbe più socialità ma non ne sono capace”. Circondato da una famiglia unita e “per bene” Checco nella realtà è lontano anni luce dall’ormai consolidata immagine del duro che si è ritagliato in televisione. Tutti lo ricordiamo perfetto nella parte di Stefano Bontate, ne Il Capo dei Capi, di Giovanni Sgrò, il cattivo di Intelligence- Servizi segreti, o ancora in Squadra antimafia, lì si che era uno tutto di un pezzo “Devo dire che recitare nel ruolo del boss mafioso Bontate, il “Principe di Villagrazia”, mi è venuto bene, anche i palermitani mi hanno fatto i complimenti. Non era facile ricostruire le sue caratteristiche, di lui c’è pochissimo materiale d’archivio, resta uno degli ultimi boss vecchio stile, prima dell’avvento dei corleonesi, di cui abbiamo memoria. Quello che sapevo per certo è ciò che resta delle testimonianze dei pentiti, ma non sai mai se tutto quello che raccontano nelle loro descrizioni corrisponde al vero. Certo è che era spietato, che aveva famiglia , tante amanti ed era un gran fumatore”. Ironia della sorte capita proprio a lui, nella vita davvero un uomo tranquillo, che non ha “amanti” sparse per l’Italia ma, solo fidanzate “fisse”, e odia il fumo (oltre che la mafia). “Ma perché pensa che io sia un santo? Guardi, non so perché ma sul set, in televisione come al cinema, non ho mai avuto occasione di recitare scene d’amore, faccio spesso il duro, quello che la sa lunga, ma credo che sia solo un caso. Non ho mai fatto il romantico e non ricordo di aver dato mai un bacio appassionato. Una volta soltanto, anni fa, girai una scena di sesso in macchina. Ma c’era il fidanzato della collega attaccato al finestrino. Tanto per non mettermi in imbarazzo. Per il resto che c’è di strano? E’ vero non ho vizi, non fumo, non bevo e me ne sto parecchio per i fatti miei. Ho Martin, il mio cane, da tanti anni mio inseparabile amico.” La televisione, quella delle fiction di qualità, lo ha reso molto popolare, anche se il cabaret e la radio restano i suoi vecchi amori e il cinema, ha in portafoglio una parte in Baaria di Giuseppe Tornatore, lo rende orgoglioso “Ho avuto la fortuna di lavorare con registi che stimo molto e che sono pilastri del cinema italiano. Sono stato felice di avere una parte in Alla luce del sole, di Roberto Faenza, e in Fuori dal mondo, di Giuseppe Piccioni. Non sono di quelli che se la tirano dicendo che un vero attore è quello che privilegia il teatro. Sicuramente, lo ammetto, è un percorso fondamentale per chi fa il mio mestiere, il teatro ti restituisce il contatto diretto con il pubblico, non da spazio alla stanchezza, ti impone sempre un livello massimo di adrenalina. Per me, però, il bello di questo mestiere è fare tutto, se posso anche contemporaneamente. Ogni esperienza fa parte di me, di quello che sono e di ciò che sono stato”. In pochi, per la verità, ricorderanno la sua conduzione di un programma a Video Music “è accaduto tanto tempo fa, nel periodo in cui studiavo all’accademia Paolo Grassi di Milano. E’ stata un’occasione divertente per entrare in contatto con il mondo della musica. Ricordo bei momenti, con tanti artisti di quei tempi, come il cantante dei Negrita, siamo rimasti ottimi amici. In realtà, perché non dirlo, sono stato uno dei primi Vj della storia della musica italiana”. L’esperienza musicale, la radio, gli anni dell’Accademia, la scuola di teatro a Catania con Edo Gari, attore semi sconosciuto ma già noto magistrato “E’ stato uno dei miei primi maestri. In pochi sanno che il presidente aggiunto dei Gip di Catania, Edo Gari (in ultimo noto per il processo Iblis e scomparso improvvisamente pochi mesi fa, ndr) era un bravissimo attore per passione e conduceva un’ottima scuola di teatro. E’ stata una delle prime in Sicilia ad essere considerata di alto profilo e ha visto muovere i primi passi a tanti colleghi di talento. Certo quelli erano gli anni in cui, nel mio campo, il merito veniva prima di tutto. Oggi il mio mondo sacrifica i migliori a molti ingiustamente raccomandati. A volte il desiderio di andare via viene. La voglia di provare a prendere un po’ d’aria fuori, giusto come fatto terapeutico, per avere la possibilità di esprimersi a pieno”. Intanto però, quasi a smentire queste affermazioni, Foti, che nella sua prima vita ha anche 23 esami in Economia e Commercio, non si perde d’animo e il lavoro arriva, sempre e importante nonostante la crisi “a breve, come le dicevo, andrà in onda Tutta la musica del cuore, questo nuovo lavoro in cui interpreto, ancora una volta, un “capoccia” una specie di boss di un paese e di un conservatorio di musica non bene identificato. Anche lì non ho scene romantiche, Rocco Santo Pirro è vedovo.” Sempre in Rai e sempre a Febbraio in calendario anche una nuova serie di Un Medico in famiglia, la fiction, giunta felicemente alla sua ottava edizione, ha introdotto un nuovo personaggio nella sceneggiatura “sarò il nuovo direttore sanitario. E’ una serie televisiva di prima serata che piace agli italiani, sono storie, tutte queste, che rispecchiano la nostra società, i nostri costumi e per questo amate dal grande pubblico generalista”. I “compagni di viaggio” di Francesco sono di tutto rispetto, lunga la lista dei film che lo hanno fatto conoscere e apprezzare. Tanti i produttori importanti, come Fatma Ruffini, tantissimi i colleghi che si è trovato a fianco “tra tutti ricordo Diego Abatantuono in All Stars ( Italia Uno) e Raul Bova, in Intellingence-servizi segreti ( Canale 5). Bova è un gentleman, non si sottraeva mai, è cortese e collaborativo. L’esperienza più esaltante però è stata sul set de Il Capo dei Capi. Abbiamo girato per mesi ed eravamo una cosa sola, una squadra affiatata, preparata, che si divertiva sempre, nonostante i ritmi durissimi.” Checco Foti non ha trascurato neanche l’impegno civile “ per quello che possiamo noi attori – conclude – diamo un contributo anche con un’esperienza di teatro civile, etico direi, con il gruppo di Le voci nel deserto. In questo tour teatrale, che dura già da tre anni, ci spendiamo personalmente e gratuitamente per lanciare appelli e testimonianze della società civile, quella sana” Checco e i suoi compagni sono certi che il messaggio arriva a tutti, portano in scena testi riadattati di grandi autori ancora oggi attualissimi. Sollecitano l’attenzione su temi di interesse collettivo, parlano dell’acqua come bene pubblico, della scuola, del sostegno alla cultura. Sì la cultura, quella che troppo spesso viene dimenticata.

 

 

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