di Elena Giordano

CATANIA – Il Ponte sullo Stretto? Per i siciliani e’ come le brioches di Maria Antonietta, spenderemo i soldi per i progetti, ma alla fine non si fara’. Le ‘’mie’’ Ciminiere? Le utilizzano nel modo piu’ volgare. La fortuna di Catania? Il terremoto del 1693, perche’ ha eliminato la classe dirigente del tempo (1). Nella Sicilia di oggi segnata dall’irredimibile bruttezza del paesaggio restano i fatti, non gli uomini, destinati all’oblio: e’ per questo che Giacomo Leone, “l’architetto”, maestro di generazioni di progettisti, ha inventato “l’anonimatologia”: “sono i fatti che restano, non le persone – sostiene – gli autori sono, subito e appena, un riferimento: vocali e consonanti che si incontrano solo per nominarsi e avviarsi verso l’anonimato. Da questo – spiega – il mio nuovo neologismo: l’anonimatologia, ogni spazio e tempo, a fatti, cose, libri, arti, musiche, sinfonie, alle matematiche e alla filosofia. Non a filosofi, musicisti, letterati, poeti, architetti, pittori o scultori. L’anonimato è una conquista di durata”.
Per i catanesi è un piccolo Benigni, dai capelli arruffati e il papillon sempre a vista. Con la laurea di architettura in tasca da quasi due decenni, Giacomo Leone a quarant’anni si iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche, sotto casa sua, solo per poter frequentare i giovani di quell’epoca di contestazione e le lezioni di via Reclusorio del Lume. E’ stato sempre tra la gente. Per la storia contemporanea dell’architettura italiana è uno della scuola di Bruno Zevi, del gruppo dei grandi nomi della facoltà di Venezia come Ignazio Gardella, Giuseppe Samonà, Francesco Tentori, Carlo Scarpa, Ernesto N.Rogers, Luigi Piccinato, Giovanni Astengo. Per i vecchi compagni del PCI rimane il più geniale, impudico e “disturbatore” di tutti. Per i suoi coetanei di destra, uno per tutti l’on.le Benito Paolone, “un saggio che avremmo dovuto ascoltare”. Per noi, di nuova generazione, è un maestro. “ Il problema della Sicilia è culturale – dice Leone – non conosciamo il senso del bello. La maggiore responsabilità delle cose brutte che ci sono in Sicilia è da imputare agli amministratori locali. Sindaci e soprintendenze. Sono loro che non hanno occhi per guardare. Non ci vuole molto, basta il buon senso, se controllassero veramente, se vigilassero su tutto quello che si fa senza un minimo di ragionevolezza la nostra terra sarebbe già ricca”. Il bello, dunque, che non c’è e produce sottocultura, non a caso il novanta per cento della nostra terra è costruita abusivamente.
Se a Venezia ha imparato la “funzione sociale” dell’architettura, a Catania, la sua città, per quarant’anni ha combattuto contro i mulini a vento. Niente di quello che ha visto progettare e nascere è stato pensato per la collettività. “Mentre Palermo resta una città di rappresentanza, Catania è ormai come Las Vegas, un circo commerciale dove è possibile fare tutto nell’edilizia e far girare denaro di dubbia provenienza. Con me le imprese non ci vogliono lavorare perché non possono rubare. Guardi che a fare un appalto “burocraticamente” corretto non ci vuole niente. E’ il seguito che bisognerebbe controllare. La realtà è che è tutto un gran disordine, noi siciliani siamo un popolo di gente che non abbiamo una lira in tasca, non abbiamo le infrastrutture ma sogniamo di mangiare il caviale. Sembra di essere nella Francia di Maria Antonietta, se il popolo ha fame non ha bisogno di brioches. Il nostro governo regionale pensa di ipnotizzarci con le brioches. Il Ponte sullo stretto, ad esempio, è come l’aneddoto di Maria Antonietta”.
Sue le uniche avanguardie di Catania. Il complesso de Le Ciminiere, la Facoltà di Fisica Nucleare, le chiese S.Euplio e San Luigi, il Centro Polivalente per la Cultura di viale Africa ( incompleto e abbandonato, ndr) “Le Ciminiere avevano una destinazione d’uso completamente diversa, avevo pensato, badi bene quarant’anni fa, a un contenitore dove si facesse cultura, invece vengono utilizzate nel modo più volgare. Dico sempre che Catania ha avuto una grande fortuna, il terremoto del 1693. Innanzitutto perché ha eliminato in una volta tutta la classe dirigente di quel tempo, dagli uomini di Chiesa ai notabili, e poi perché è stato necessario ricostruire la città. Badate bene che Catania non è barocca, come erroneamente si crede, il Vaccarini progettò una città moderna. Ci sono infatti, con un’anticipazione di trecento anni, tutti i segni di opere prettamente moderne”. L’Architetto ha sempre militato nelle fila del Pci, del quale è stato consigliere comunale negli anni ’70: “feci una battaglia durissima in consiglio contro tutti – racconta – ho cercato di salvare il salvabile quando volevamo demolire le fabbriche di zolfo affacciate sul mare, quando si cominciò a parlare del “sacco” di corso Sicilia. Molte responsabilità di ciò che è stato fatto e di ciò che manca le dò al centrosinistra, alla sinistra del compromesso storico che, come avviene anche oggi, non si muoveva per nulla“ Sua una recente lettera a Giorgio Napolitano: “era il 2008 quando le mostrai Catania – scrive Leone – il 1863, data del terremoto che ci distrusse, era il tempo in cui non c’erano debolezze per i riformisti. Nel ’70 sostenevo che in Sicilia il compromesso storico sarebbe passato alla storia solo per i compromessi che si facevano. In quegli anni ci battevamo anche per la salvaguardia delle aree centrali di Catania e non solo. Nel 1986 un gruppo di architetti e sociologi di fama internazionale, riuniti a Campo di Bisenzio a Firenze, fece un appello, esortando gli amministratori locali a non consentire l’edificazione delle aree come S.Berillo per consentire una indicazione di pianificazione illuminata, assolutamente unica e la conservazione di un patrimonio centrale di decine di migliaia di metri quadri”. Firmarono, a vuoto, Bruno Zevi, Francesco Tentori, Alberto Samonà,Vieri Quilici, Carlo Doglio, Roberto Garavini, M.Genevieve Lambert, Fredi Dgman, Francoise Maquignì . “Ho sempre cercato di lasciare un segno in quello che faccio. Un’opera deve avere un significato che resti ai posteri. Quando progettai il Cristo di S. Euplio feci scandalo – racconta l’architetto – era così brutto che il vescovo di allora lo fece rimuovere. In realtà a quell’epoca, pur non essendo un cristiano praticante, avevo contatti interessanti con una parte “eretica” della Chiesa, la corrente progressista che faceva paura agli ortodossi e di cui furono grandi esponenti coloro che si riunivano al convento de Le Caldine a Firenze: Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Don Vivarelli ( fondatore di ManiTese), il cardinale Cavara. “Per inaugurare la chiesa di S. Luigi chiamai un grande gesuita, Diez Alegria, che insegnava all’università Gregoriana di Roma. Tremarono anche le sedie perché era considerato una “mina vagante” all’interno della Chiesa”
Di quali grandi opere ha bisogno la Sicilia? “Vorrei parlare piuttosto di quelle di cui non ha bisogno – dice deciso Leone – il Ponte è una di quelle. Dimentichiamo troppo spesso che progettare qualcosa ignorandone il “contesto”, pensare a un’opera senza ridisegnare quello che ci sta attorno è come creare cattedrali nel deserto. Prima di pensare al ponte sullo stretto bisognerebbe ricostruire le città di Messina e Reggio Calabria. Prima di volere l’alta velocità che ci porti a Roma, dovremmo pensare a come raggiungere Palermo. Ma sa cosa penso veramente? Spenderemo i soldi per la parte propedeutica ma il Ponte non si farà”.

1° La mattina dell’11 febbraio 1693, in soli undici secondi la città viene letteralmente rasa al suolo dal terremoto. Restano in piedi solo le tre absidi della Cattedrale e il Castello Ursino. Sotto le macerie perde la vita l’80 per cento della popolazione, oltre 18000 persone.